18 Maggio – V Domenica di  Pasqua.

Gesù, Via, Verità e Vita.

Oggi siamo chiamati a riflettere sul ruolo che ha Cristo nella nostra vita.

Gesù, a Tommaso che gli chiede di non conoscere la via dove va, si dichiara l’unica Via che conduce al Padre, come Verità della rivelazione, come unica Vita autentica. A Filippo, che gli chiede di mostrargli il volto del Padre, Gesù risponde: « Chi vede me, vede il Padre …. Io sono nel Padre e il Padre è in me ».  Gesù, come unico rivelatore del Padre, immette nella intimità che c’è tra il Padre e il Figlio, perché dice:« Io sono nel Padre e il Padre è in me » e ai discepoli chiede: « Rima- nete in me ed io in voi » (Gv 15,4). Questa intimità si realizza oggi con la mediazione  del Cristo risorto, presente nella Parola delle Scritture, attraverso la sua presenza nel pane e nel vino, con il suo Corpo e il suo Sangue, per opera dello Spirito Santo.

Voler essere suoi discepoli significa allora seguirlo in questo cammino, con la consapevolezza della nostra miseria per giungere alla piena comunione con Dio e i fratelli.

Quale sensazione non hanno provato gli apostoli nel sentire Gesù che dice loro: « Figlioli, ancora un poco sono con voi … Dove vado io, voi non potete venire », essi che avevano scommesso la loro vita nel seguirlo, pensando ad attese inerenti l’esistenza terrena?

All’annunzio dell’assenza del maestro sarà seguita in loro la sensazione dell’abbandono. Per questo Gesù continua dicendo: « Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me »(Gv 14,1). Gesù chiede loro di avere fede nel Padre e in lui e viceversa. Ma contem-poraneamente promette che essi saranno immessi nella intimità che vi è tra lui e il Padre e tale promessa deve far superare loro il turbamento causato dall’annunzio improvviso della sua assenza. E quando si sarebbe verificata questa promessa di intimità? Bisognava aspettare la fine dei tempi per la sua realizzazione  o subito dopo la morte? Come vivere nell’oggi l’efficacia della promessa di Gesù?

« Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi »: è l’invito festoso che apre oggi la liturgia. Sappiamo bene quali sono  questi prodigi che solo Dio ha potuto fare e per i quali dobbiamo rallegrarci: sono la liberazione vera, cioè dal peccato, la rigenerazione a figli di adozione, la chiamata all’eredità eterna. Cantiamo, quindi, un canto nuovo perché siamo divenuti « primizie di umanità nuova », quella che nasce dallo Spirito  ed è edificata   « in sacerdozio regale, popolo santo, tempio della gloria di Dio ». Non è un sogno e non sono vaghe parole. Lo avvertiamo in proporzione della nostra fede. Questa deve poi maturare in opere di cui la più importante è l’amore. In un’orazione la Chiesa domanda  di sapere accogliere « come statuto della vita il comandamento della carità ». E’ tutto qui, ma è il segno che siamo portatori efficaci e credibili di un’altra umanità.

Prima Lettura: At 6,1-7.

Anche nella Chiesa primitiva sorgono screzi e dissapori. Non dobbiamo idealizzarla. Là dove ci sono degli uomini, ci sono limiti e imperfezioni. La ragione qui è il disservizio delle mense, e quindi della carità che si manifesta con l’« assistenza quotidiana ». Gli apostoli provvedono ma non in qualche modo, bensì scegliendo « sette uomini di buona reputazione, ripieni di Spirito e di sapienza ». Queste tre caratteristiche sono esemplari: la reputazione buona, la pienezza dello Spirito Santo, la saggezza. Diversamente non si può presiedere , si tratti pure del servizio delle mense. Ci fanno riflettere anche le parole degli apostoli: « Noi ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola » che sono sentiti come più propriamente ed essenzialmente un ministero apostolico. Se questo fosse trascurato, essi sarebbe infedeli  alla missione. Neppure la carità ci potrebbe più essere, alla fine. Sarebbe grave se questo senso del primato della preghiera e della predicazione venisse meno e ci si occupasse d’altro o di ciò che altri nella comunità cristiana più convenientemente dovrebbero fare. Non si tratta di mettere in antitesi servizio « alle mense »  e preghiera e predicazione, ma di articolarli in un giusto rapporto.

Seconda Lettura: 1 Pt 2,4-9.

San Pietro, rivolgendosi ad una comunità che vive l’assenza corporea di Gesù, dice :« Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo cre-dete in lui » (1 Pt 1,8). Essi  sono stati aggregati attraverso il Battesimo a Cristo e formano  in lui, « pietra d’angolo », un tempio, mentre per coloro non credono, Gesù  è « pietra di scandalo » perché essi « non obbediscono alla Parola », cioè non credono al Vangelo. La fede è credere nella Parola  di Dio e la vita cristiana è sottomettersi ad essa.

La Parola che ci raggiunge tramite le Scritture e soprattutto con Gesù, Parola fatta carne, suscita in noi la fede e da questo rapporto con la Parola e con Cristo sgorga il ministero della Chiesa che continua l’opera del suo Signore. Gli Apostoli affrontano la crisi organizzativa della comunità stabilendo delle priorità: « Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio … Noi, invece, ci dedichiamo alla preghiera e al servizio della Parola »( At 6,2-4).

Oggi si parla, spesso anche a sproposito, di « laici » e di « laicato». Va bene, se si conserva viva la consapevolezza che un cristiano, prete o no, è un consacrato. Tutti i credenti formano « un sacerdozio santo ». Tutti, « quali pietre vive », sono costituiti « come edificio spirituale », così da potere offrire  « sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo ». Questi sacrifici spirituali sono la nostra vita vissuta in grazia, le nostre opere animate dallo Spirito Santo. Questo è possibile se ci uniamo nella Eucaristia al sacrificio offerto da Cristo sulla croce.

Siamo un « edificio spirituale »: non varrebbe nulla una bella chiesa di pietre, se a formarla non fossimo noi  con la nostra fede e la nostra carità. La chiesa di pietre è solo un segno e un aiuto: è in noi, nella comuni-tà cristiana, che Dio dev’essere presente. Siamo noi chiamati « stirpe eletta, nazione santa, popolo di Dio », luogo della proclamazione del Vangelo, cioè delle opere della salvezza. E’ come dire che i cristiani rigettano tutto quanto è contrario alla santità, ogni forma di peccato.

In questo senso essi sono separati dal mondo, consacrati a Dio, destinati a collaborare  alla redenzione del mondo e, in questo senso, a essere sacerdoti.

Vangelo: 14,1-12.

Non vediamo in modo sensibile il Signore, ma non per questo egli è lontano. Anzi, proprio perché asceso al cielo, alla destra del Padre, può essere presente, e lo è di fatto soprattutto nell’Eucaristia, dove non si trova il Corpo morto di Gesù, ma Gesù vivo, nell’atto di donarsi al Padre e a noi, e quindi nell’atto del suo sacrificio, che è principio di risurrezione e di vita.

Non deve mai mancarci la fiducia. Risentiamo la sua esortazione: « Non sia turbato il vostro cuore. Vado a prepararvi un posto. Verrò di nuovo e vi prenderò con me ». Su questa promessa di Gesù poggia tutta la nostra sicurezza. La morte non sarà il tragico crollo di tutte le speranze, ma la venuta di Cristo a prenderci per portarci  a vivere eternamente  con lui e con il Padre. Non è meraviglioso tutto questo, in mezzo alle difficoltà  che ci assalgono  ogni giorno? Quello che importa secondo Gesù è « avere fede» nel Padre e in lui.