25 MAGGIO – VI  Domenica di  Pasqua.

Chi ama Cristo è amato dal Padre.

La nostra fede spesso è vissuta nel timore che Dio  ci punisca. Essere cristiano significa che Dio è premuroso verso di noi, si preoccupa e ci ama come un padre provvidente. Ha mandato il suo Figlio unigenito, Cristo Gesù, che è morto per noi, per liberarci dalla morte  e ci assicura che, anche se non possiamo vederlo, toccarlo, egli non ci lascia soli, perché il suo Spirito ci accompagna sempre.

Tutto il tempo pasquale è pervaso  di letizia. Essa però non scaturisce dal successo delle nostre imprese terrene, o perché i nostri giorni non conoscono motivi di ansia. E’ la letizia che viene dalla costatazione e dalla certezza che siamo stati liberati dalla vera causa della tristezza, il Peccato, e che il Signore risorto ci ha riportati ad una speranza che non conoscerà delusioni: la speranza della gloria eterna con lui.

Bisogna che torniamo spesso –   e perciò è provvida la domenica – a tutto quello che Cristo ha fatto e insegnato: allora non si inaridirà la ragione della nostra gioia. C’è in particolare una strada che mette in fuga l’avvilimento: è quella di uscire da noi, sull’esempio di Gesù che per il primo ha dato la sua vita per gli altri. Carità e letizia sono strettamente congiunte.

Prima Lettura: At 8,5-8.14-17.

Pietro e Giovanni effondono con l’imposizione delle mani la pienezza dello Spirito Santo. E’ questo dono di Cristo che ci rinnova, che mette in fuga gli spiriti immondi. Il peccato lascia come una traccia della presenza del demonio  ma i battezzati, per la loro fede e per i sacramenti, ne sono liberati. Questa novità deve manifestarsi nel comportamento, nel percorso della strada  della giustizia, come diceva la prima preghiera  di questa messa.

Seconda Lettura: 1 Pt 3,15-18.

La lettera di Pietro è ricca di insegnamenti preziosi. Eccoli: occorre adorare il Signore Gesù nei nostri cuori, coltivare l’amicizia con lui attraverso il colloquio della confidenza e dell’orazione. Un altro insegnamento: dobbiamo rendere ragione, dire i motivi per cui crediamo, e questo comporta anche un impegno  a studiare il Vangelo e a comprenderlo. Dobbiamo essere non irriguardosi, prepotenti e irritanti, ma dolci, leali, rispettosi. Non meravigliamoci infine se dobbiamo patire qualcosa per la fede, come Gesù, del resto, che è morto per noi. Ed ecco un principio che deve esserci di guida nella nostra condotta: « Se questa è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male».

Vangelo: 14,15-21.

Gesù, in questo brano del Vangelo, mette in continua tensione l’attesa e il possesso, la promessa e la realizzazione. Ai discepoli, che si sentono abbandonati per aver detto che dove lui andava loro non potevano andare, Gesù li chiama “figlioli ”,   promette di non abbandonarli per sempre e  di pregare il Padre perché dia loro lo Spirito Paraclito. Se Giovanni scrive queste parole dette da Gesù nell’ultima Cena dopo l’evento della risurrezione, l’averlo rivisto risorto diventa il compimento del suo permanere tra loro e per noi credenti, il vederlo  nella visione della fede, diventa l’attuazione, nel nostro oggi, della promessa della sua presenza costante: « … Non vi lascerò orfani: verrò di nuovo ».

Questa presenza istaura una comunione nell’intimo di ogni discepolo, perché Gesù dice: « Io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi », dopo aver detto: « Io pregherò il Padre mio ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga sempre con voi » ( Gv 14,16). Così viene delineato il legame d’amore fra le Persone divine e il credente, legame esistenziale, concreto e pratico. La presenza della Trinità nella vita non è legata ad un luogo, il tempio, un luogo di culto, ma alla persona del credente.

Il tempo dello Spirito.

Il tempo che intercorre tra le parole dette di Gesù e il compimento delle sue promesse, il tempo della Chiesa e il nostro è animato dal suo Spirito, che realizza quelle promesse. Lo Spirito, che è Spirito di verità, ci fa comprendere la Parola di Gesù e ci dà la forza di testimoniarla,  come avviene con la parola che predica Filippo presso i Samaritani, che credono e si convertono perché la testimonianza dell’apostolo rende credibile  quella Parola. Ancora,  in una comunità tribolata, come scrive san Pietro, lo Spirito anima la concretezza della vita cristiana: « E’ meglio soffrire operando il bene  che facendo il male ». A sorreggere questa resistenza nel bene è la speranza che unisce, per mezzo della fede, a Cristo anche nei momenti delle tribolazioni. Questa testimonianza, tradotta in opere concrete, interroga anche  i non credenti, a cui bisogna essere « sempre pronti a rispondere  a chiunque vo domandi ragione della speranza che è in voi » ( Pt 3,15)

La  presenza dello Spirito promesso è un dono che si riceve solo se il discepolo si decide ad accogliere l’invito di Gesù: « Se mi amate, osserverete i miei comandamenti … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama » (Gv 14,15.21). Così l’amore non è un semplice sentimentalismo, perché si modella sul suo, poiché dice: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » ( Gv 15,17).

Presso di noi, dunque, abita lo Spirito Santo, chiamato da Gesù il Paraclito, il consolatore, che porta la verità, che è Gesù stesso e il suo Vangelo. Ma il luogo dove lo Spirito abita è il cuore dei discepoli di Gesù, mediante la grazia. Gesù dice un’altra cosa nel brano che segue: « Non vi lascerò orfani ». E infatti lo Spirito Santo è il segno che Cristo è con noi e non ci abbandona a noi stessi, alla nostra solitudine. Poi ci sarà il suo ritorno glorioso, quando lo vedremo insieme col Padre. Sarà già il momento della morte, che allora non va aborrito, ma per questo motivo atteso con gioia, si direbbe perfino con impazienza. Però adesso si devono mettere in pratica i comandamenti di Gesù: « Chi li osserva, questi è colui che mi ama ». Ecco un principio fondamentale e chiarissimo. Le parole da sole non sono indice di amore.