1 GIUGNO – VII  Domenica di  PASQUA

ASCENSIONE  DEL   SIGNORE

Gesù, « vincitore della peccato e della morte, ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena speranza che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi sue membra, uniti nella stessa gloria »: è quello che canta oggi il primo prefazio con tanta solennità, ma che dobbiamo tener presente in ogni giorno della vita. Nell’umanità di Gesù presso il Padre siamo già in qualche modo presenti anche noi, proprio perché egli è il Capo del corpo che siamo noi. Speriamo la salvezza e la gloria eterna perché egli l’ha acquistata  per sé e per noi. Non siamo lasciati alla nostra povertà – dice ancora il prefazio -: adesso ci è donata la grazia di Cristo che attende di maturare nella sua stessa gloria. Da lui che è il Mediatore siamo già legati con Dio.

Ma se lungo il cammino terreno siamo presi dal dubbio e ci sentiamo smarriti nella ordinarietà e monotonia della nostra vita e di quella della Chiesa, non  dobbiamo, però, credere che egli ci abbia abbandonato, perché la sua presenza, resa costante dallo Spirito  inviato, ci accompagna nella missione nel mondo e ci fa attendere con fiducia e operosità il sua ritorno futuro, come dicono gli angeli nel momento in cui sale verso il cielo. Operosità vuol dire impegno a vivere in maniera degna di essere accolti nella sua gioia di Signore risorto.

Prima Lettura: At 1,1-11.

Dopo che nei discepoli ha preso sicura consistenza la certezza della risurrezione di Gesù, di cui avevano dubitato in varie occasioni, e davanti al quale, dice Matteo, « quando essi lo videro, si prostrarono », egli sale al cielo. Non è un abbandono e una lontananza: dalla destra del Padre Cristo invia lo Spirito, perché i fedeli, ricevendolo  in pienezza, siano fortificati per la testimonianza che devono rendere al Risorto. E’ lo stesso Spirito che accompagna i discepoli nella loro missione. Essi infatti non devono rimanere inattivi aspettando la venuta gloriosa di Gesù. Non devono preoccuparsi di quando sarà la fine del mondo e il termine  della storia. Sicuramente il Maestro tornerà. Durante poi questo tempo di attesa, la testimonianza si manifesta specialmente nelle opere della fede e della carità, che esprimono  il desiderio di riunirsi al Signore.

Se da una parte la comunità del Signore sempre lungo la sua storia, come lo fu dall’inizio, può sperimentare momenti e fatti che non l’hanno resa splendida Sposa di Cristo, dall'altra ha anche molte  pagine di testimonianza discreta e, oggi,  con frequenza, eroica di tanti martiri. D’altronde Gesù stesso lo aveva detto: « Sarete perseguitati, ma riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra » (At 1,8-9). Così la Chiesa, pur fragile e ferita, può continuare a dare speranza agli uomini e ognuno  trovare il proprio spazio di crescita umana e spirituale, poiché  non è fatta di puri, ma è costituita come comunità, che nel nome del Signore accoglie i peccatori, i quali, pur zoppicando, si sforzano di imitarlo.

Seconda Lettura: Ef 1, 17-23.

I cristiani aspettano tutti un’eredità, anche i più poveri ai quali non sia mai  avvenuto di ereditare. E’ il tesoro della gloria che riceveranno  con tutti i santi e che sarà donata in Gesù Signore risorto e glorioso. Il destino di Cristo è ormai il nostro destino: egli è il capo della Chiesa e noi ne siamo il corpo. Domandiamo per noi quanto san Paolo chiedeva per la sua comunità:      « uno spirito di sapienza per una più profonda conoscenza del Dio del Signore nostro Gesù Cristo »; domandiamo di avere gli « occhi  del cuore » per comprendere la nostra speranza. Fin che non raggiungiamo questo livello, ogni notizia sul mondo, sulle cose, sulla storia ci serve a poco. Chi invece ha capito Gesù ha acquistato la vera scienza. Capire   però qui indica prender parte, assaporare, gustare e vivere. A questo punto tutto il resto  acquista una proporzione nuova e diversa. Disponiamo di un criterio per valutare veramente le cose, per superarle e disincantarle. E’ il criterio del distacco che hanno i santi, il cui desiderio supremo è il Signore.

Vangelo: Mt 28, 16-20.

La Chiesa, comunità di santi e di peccatori, in obbedienza al comando di Gesù (Mt28,10), convocata da lui che l’ha beneficiato della rivelazione di sé nel suo corpo glorioso e investita di una dignità altissima, intraprende fin dal tempo apostolico la missione di testimoniare e realizzare,  non a proprio nome, ma a nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’opera salvatrice dell’umanità da lui iniziata.  Sono le Tre Persone della Santissima Trinità che danno valore alla predicazione, ai sacramenti e al ministero.

Immediatamente, poi, la missione esprime il potere di Gesù risorto: è lui che invia e rende efficaci  gli atti di quelli che sono mandati. E’ lui che è presente perché la sua opera si estenda al mondo. L’ascensione non ci toglie Gesù, al contrario lo ravvicina a ogni tempo e a ogni spazio, perché con lui si stabilisca il rapporto di salvezza. Le sue ultime parole ci sono motivo di conforto e di speranza: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo ». Nessun momento  più è vuoto e privo della presenza del Signore. Da qui l’orazione come colloquio ed esperienza personale di Cristo. Il vertice di questa presenza e di questa comunione si trova nell’Eucaristia. In essa la relazione con  Gesù asceso al cielo raggiunge il suo momento più perfetto. Ma dove c’è Gesù Cristo là c’è il Padre, c’è il cielo. Allora non è fuor di luogo  dire che l’Eucaristia  è già, in anticipo la Vita eterna.

Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 2 sull’Ascensione 1, 4; PL 54, 397-399)

L’Ascensione del Signore accresce la nostra fede

Nella festa di Pasqua la risurrezione del Signore è stata per noi motivo di grande letizia. Così ora è causa di ineffabile gioia la sua ascensione al cielo. Oggi infatti ricordiamo e cele- briamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre, al di sopra di tutte le milizie celesti, sopra tutte le gerarchie angeliche, sopra l’altezza di tutte le potestà. L’intera esistenza cristiana si fonda e si eleva su un’arcana serie di azioni divine per le quali l’amore di Dio rivela maggiormente tutti i suoi prodigi. Pur trattandosi di misteri che trascendono la percezione umana e che ispirano un profondo timore riverenziale, non per questo vien meno la fede, vacilla la speranza e si raffredda la carità.

Credere senza esitare a ciò che sfugge alla vista materiale e fissare il desiderio là dove non si può arrivare con lo sguardo, è forza di cuori veramente grandi e luce di anime salde. Del resto, come potrebbe nascere nei nostri cuori la carità, o come potrebbe l’uomo essere giustificato per mezzo della fede, se il mondo della salvezza dovesse consistere solo in quelle cose che cadono sotto i nostri sensi?

Perciò quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali. Perché poi la fede risultasse più autentica e ferma, alla osservazione diretta è succeduto il magistero, la cui autorità avrebbero ormai seguito i cuori dei fedeli, rischiarati dalla luce superna.

Questa fede si accrebbe con l’ascensione del Signore e fu resa ancor più salda dal dono dello Spirito Santo. Non riuscirono ad eliminarla con il loro spavento né le catene, né il carcere, né l’esilio, né la fame o il fuoco, né i morsi delle fiere, né i supplizi più raffinati, escogitati dalla crudeltà dei persecutori. Per questa fede in ogni parte del mondo hanno combattuto fino a versare il sangue, non solo uomini, ma anche donne; non solo fanciulli, ma anche tenere fanciulle. Questa fede ha messo in fuga i demoni, ha vinto le malattie, ha risuscitato i morti.

Gli stessi santi apostoli, nonostante la conferma di numerosi miracoli e benché istruiti da tanti discorsi, si erano lasciati atterrire dalla tremenda passione del Signore e avevano accolto, non senza esitazione, la realtà della sua risurrezione. Però dopo seppero trarre tanto vantaggio dall’ascensione del Signore, da mutare in letizia tutto ciò che prima aveva causato loro timore. La loro anima era tutta rivolta a contemplare la divinità del Cristo, assiso alla destra del Padre. Non erano più impediti, per la presenza visibile del suo corpo, dal fissare lo sguar- do della mente nel Verbo, che, pur discendendo dal Padre, non l’aveva mai lasciato, e, pur risalendo al Padre, non si era allontanato dai discepoli.

Proprio allora, o dilettissimi, il Figlio dell’uomo si diede a conoscere nella maniera più sublime e più santa come Figlio di Dio, quando rientrò nella gloria della maestà del Padre, e cominciò in modo ineffabile a farsi più presente per la sua divinità, lui che, nella sua umanità visibile, si era fatto più distante da noi.

Allora la fede, più illuminata, fu in condizione di percepire in misura sempre maggiore l’identità del Figlio con il Padre, e cominciò a non aver più bisogno di toccare nel Cristo quella sostanza corporea, secondo la quale è inferiore al Padre. Infatti, pur rimanendo nel Cristo glorificato la natura del corpo, la fede dei credenti era condotta in quella sfera in cui avrebbe potuto toccare l’Unigenito uguale al Padre, non più per contatto fisico, ma per la contemplazione dello spirito.