





Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio!
19 OTTOBRE – XXIX Domenica del Tempo Ordinario.
Nella storia dell’uomo il rapporto tra la sua libertà e la signoria di Dio è un poblema che attraversa tutte le generazioni e varie sono state le posizioni che ha assunto, perché se, da una parte, l’uomo non è uno strumento nelle mani di Dio, avendolo questi dotato di libertà, dall’ altra, il cristiano, guardando a Cristo, non può esiliare Dio dalla storia. Dio, fonte di ogni bene, a tutti gli uomini chiede di realizzare l’attuazione del bene e ne dà anche la forza, ma ad essi spetta di aderirvi accogliendolo liberamente. L’attuazione del progetto salvifico di Dio può subire interruzioni, progredire o regredire drammaticamente a seconda delle scelte che l’uomo liberamente pone in riferimento a tale attuazione ed è il peccato dell’uomo, che consiste nel rifiuto più o meno consapevole di collaborare con questo progetto, che ritarda la realizzazione della signoria di Dio nella storia.
L’obbedienza a Dio delle libere volontà degli uomini, anche quelle di coloro che svolgono il ruolo dell’autorità, deve condurre gli uomini ad agire in funzione del bene di tutti, secondo lo Spirito del Figlio di Dio, cosicché, ci fa pregare oggi la liturgia nella colletta, « tutta l’umanità intera riconosca Lui solo come unico vero Dio » . Il modello, quindi, che l’uomo dovrebbe seguire è l’obbedienza a Dio secondo lo Spirito di Gesù suo Figlio che, sacrificando la sua vita sulla croce, ha fatto la volontà del Padre e, in questa sua obbedienza, ha racchiuso tutti noi, se vogliamo partecipare della salvezza.
L’Eucaristia che celebriamo, oltre che attuare per noi tutte le volte che ne facciamo memoria quel sacrificio, ci è data come cibo e sostegno per imitare l’obbedienza del Figlio e così acconsentire al disegno di Dio in tutta la nostra vita, anche quando il cammino si fa arduo, faticoso ed esigente.
Essa è alimento alla nostra vita di figli di Dio. Da essa scaturisce anche l’impegno ad operare a favore dei fratelli, come Gesù, che è venuto per servire e non per essere servito o dominare, ma per donarsi ai fratelli.
Prima Lettura: Is 45,1.4-6.
Nell’ oracolo di Isaia viene riaffermata dal profeta la supremazia di Dio: « Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio ». E’ Dio che ha eletto Ciro, prendendolo per la sua destra, chiamandolo per nome, dandogli un titolo, rendendolo pronto all’ azione e liberatore , benché questi non lo conosca, per realizzare la sua volontà verso Giacobbe, suo servo, e Israele suo eletto, e far conoscere la sua potenza dall’ oriente all’ occidente, poiché « non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, e non ce n’è altri ». Ciro, che con il suo editto ridarà la libertà all’ esule Israele, sarà lo strumento a servizio nelle mani di Dio per compiere il disegno divino. Da ciò deve derivare la fiducia dell’uomo in Dio e noi, nonostante tutte le apparenze e le difficoltà in cui versiamo, non dobbiamo perdere la fiducia nel Dio vivo: nessun proposito di uomini o necessità può rendere vana o compromettere l’opera di Dio, poiché è in suo potere realizzare la sua volontà e come dice il detto di Bossuet:" Dio scrive dritto anche sopra le righe storte degli uomini".
Seconda Lettura: I Ts 1,1-5b.
Paolo scrivendo ai Tessalonicesi augura loro la pace e, ricordandoli nella preghiera, rende grazie a Dio « per l’operosità della loro fede, la fatica della loro carità e la fermezza e costanza della loro speranza nel Signore Gesù ». Tutto questo Paolo lo ritiene non tanto opera sua quanto della potenza di Dio e della forza dello Spirito Santo, che suscita nel cuore degli uomini l’agire e l’operare e l’adesione di ognuno alla sua volontà, perché tutte le forze e le componenti che costituiscono la comunità operino a beneficio di questa, per un servizio generoso ai fratelli, secondo il volere di Dio.
Vangelo: Mt 22,15-21.
Gesù, nel dialogo con i farisei che gli chiedono astutamente se « è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare », non vuole tanto elaborare una teoria politica o economica e, rispondendo con la solita franchezza, riesce a sorprendere gli interlocutori e a schivare la loro insidia di coglierlo in fallo.
Dopo essersi fatto mostrare la moneta che riporta l’ immagine di Cesare, egli non risponde né con un “sì ”, che l’avrebbe fatto apparire nemico del popolo oppresso, né con un “no ”, che l’avrebbe reso un sovversivo verso l’autorità imperante. Gesù dichiara, pur riconoscendo il debito da dare a Cesare, il quale con il tributo richiesto ottiene quanto gli compete per realizzare un governo, pur sempre limitato e desacralizzato, a beneficio di tutti, che va dato a Dio quello che è di Dio, a cui tutto appartiene. Così Gesù se depoliticizza l’immagine di Dio, che non può essere usato come strumento di potere, chiede agli uomini di accogliere il Vangelo che egli proclama e, poiché spetta solo a Dio il giudizio sul loro agire , in riferimento ad esso, essi devono adeguare il loro comportamento in tutto il resto. Se il cristiano, da una parte, è cittadino di questa terra, per cui non può non partecipare alla vita sociale e politica degli uomini, dall’ altra, concependo la storia come un cammino verso il Regno dei cieli, deve impegnarsi per realizzare il progetto di Dio che, dall'insegna- mento e dalla vicenda di Gesù, è diventato un impegno pregante per i suoi discepoli. Nelle situazioni di conflitto tra l’autorità di Cesare e le esigenze del Vangelo deve subentrare la mediazione della coscienza, che ci fa assumere la responsabilità personale delle proprie scelte. Pur non essendovi in questione la laicità dello stato, per il cristiano si pone la tensione costante del “come ” egli deve porsi, da credente, all' interno delle istituzioni, dando a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare, limitando questi se pretende di sostituirsi a Dio, e limitando coloro che in nome di Dio volessero porsi al posto dell’autorità di Cesare.
Il Signore si prende cura della sua "vigna".
5 OTTOBRE – XXVII Domenica del Tempo Ordinario.
Il Signore si prende cura della sua “vigna”.
Nella preghiera iniziale della Eucaristia di questa domenica ci rivolgiamo al Padre celeste perché « vegli incessantemente sulla Chiesa, che non abbandoni la vigna che egli ha piantato e che la coltivi e la arricchisca di scelti germogli, perché innestata in Cristo » che è la vera vite, cosicché porti abbondanti frutti di vita eterna. Così Dio nella sua misericordia non solo perdona agli uomini le loro colpe ma anche li arricchisce delle sue grazie e dei suoi doni. Dio esaudisce le nostre suppliche al di là di ogni nostro desiderio, di ogni merito e ogni aspettativa. Bisogna, allora, pregare con fede che, pur se piccola, è molto efficace.
Prima Lettura: Is 5,1-7.
Il popolo d’ Israele rappresenta la vigna del Signore. Egli la cura con amore, la protegge, la dissoda e vi pianta viti pregiate, la dota di una torre, di un tino e di tutto ciò che è necessario perché possa produrre buon vino. La risposta però a tanto amore da parte del suo popolo è una continua infedeltà all’alleanza, per cui invece della giustizia e della rettitudine crescono in essa « spargimento di sangue e oppressione dei poveri », cioè essa produce acini acerbi. Il Signore si attendeva che producesse uva dopo tutto quello che aveva fatto alla sua vigna. Anche da noi, popolo della nuova alleanza, innestati in Cristo, il Signore si attende frutti abbondanti, perché ci coltiva con la sua parola, che illumina il nostro operare, ci nutre con il Corpo e il Sangue del suo Figlio, ci sostiene con la forza del suo Spirito e ci colma di tutti i beni, doni e carismi, che servono perché possiamo portare molto frutto. Ma la nostra risposta non è, a volte, come quella di Israele? Come aveva Dio intenzione di fare con il suo popolo che, cioè, avrebbe tolto alla sua “vigna” ogni protezione, l’ avrebbe trasformata in pascolo, rendendola un deserto e luogo selvatico dove vi crescono rovi e pruni, non potrebbe fare lo stesso anche con noi? Il Signore non si aspetta, come era per il popolo d’Israele, anche da noi opere di giustizia e non di oppressione e diseguaglianze, di pace e non di divisioni e guerre fratricide, di benevolenza e non di odio? La storia potrebbe ripetersi anche con noi, per il nostro modo di vivere opulento e infedele in contrasto con l’amore infinito da parte di Dio per noi, poiché, spesso, siamo ingrati e ribelli ai suoi insegnamenti, ai suoi comandamenti?
Seconda Lettura: Fil 4,6-9.
In questo brano, Paolo, con per i Fiippesi, esorta anche noi ad abbandonarci a Dio, senza angustie, angosce o agitazioni, a presentare a lui le nostre suppliche, le nostre richieste e i nostri ringraziamenti con preghiera umile e filiale, fiduciosi che la pace di Dio ci custodirà nell’intimo del cuore e della mente, al di là delle nostre aspettative, nel suo Figlio Gesù. Ma da parte nostra è necessario che ricerchiamo e sia nei nostri pensieri tutto ciò « che è vero, che è nobile, quello che è giusto, che è puro, quello che è amabile, quelle che è onorato, ciò che è virtù e merita lode » e che le cose che il Signore ci fa conoscere, comprendere e vedere testimoniate da coloro che gli sono fedeli, siano messe in pratica da tutti quelli che vogliono seguirlo nella fedeltà e nell’amore. E’ un programma quello che, oggi, l’apostolo ci propone, per essere la « vigna del Signore, che si aspetta frutti abbondanti di fedeltà, di giustizia e di amore ».
Vangelo: Mt 21, 33-43.
Nella parabola della vigna del Vangelo di oggi, Gesù riprende tutto quello che il profeta Isaia aveva cantato di Dio in riferimento al suo popolo, di come l’aveva curato e amato. La vigna, cioè Israele, era stata affidata alla cura di vignaioli, sacerdoti, profeti e suoi inviati, che però non l’hanno coltivato e nella loro infedeltà, rendendosi indegni dell’elezione divina, hanno fatto i loro interessi e non hanno dato i frutti che Dio, padrone della vigna, si attendeva.
Anzi, bastonando alcuni profeti e uccidendone altri, cioè coloro che Dio mandava, e infine uccidendo il suo stesso Figlio, di cui non hanno avuto riguardo, si sono resi indegni del regno loro promesso, il quale sarebbe stato loro tolto e dato ad un « nuovo popolo che lo farà fruttificare », dice Gesù. Questo popolo nuovo è quello che è costituito nella nuova alleanza che Dio stipula con l’umanità rinnovata dal sacrificio del Cristo e nel suo Sangue.
Quella del rapporto tra Dio e Israele, ma anche tra Dio e i credenti, è una storia di ribellione e di rigetto del progetto di Dio, di cui neanche noi siamo a volte indenni, poiché in questa nuova realtà, dopo essere stati innestati in Cristo, edificati in lui pietra angolare, ciascuno di noi dovrebbe ma, a volte, non porta effettivamente frutto secondo il desiderio e il volere di Dio.
Dio, nella sua misericordia, è vicino a chi lo cerca.
29 Settembre – XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO.
Dio, con la sua misericordia, è vicino a chi lo cerca.
Se le vie di Dio non sono le nostre vie e la sua giustizia non corrisponde alla nostra giustizia, come ci diceva la Parola di Dio domenica scorsa, oggi, il Signore ci dice che egli tiene conto del nostro cammino di conversione, per vivere secondo la sua giustizia, camminare nelle sue vie e vivere secondo la sua volontà.
Tutte le volte che viviamo l’Eucaristia noi prendiamo parte al memoriale della passione, morte e risurrezione del Signore. In essa sperimentiamo la misericordia del Signore, che continua ad accogliere i peccatori pentiti nel cuore, promette « vita e salvezza a ogni uomo che desiste dall’ingiustizia », rende con il suo Spirito docili alla sua parola e dona gli stessi sentimenti del suo Figlio Gesù Cristo. Dall’essere commensali alla stessa mensa non possiamo non condividere con i fratelli ciò che il Signore nella sua provvidenza ci dona, così non possiamo ammettere l’ingiustizia, il disprezzo dei fratelli che sono nelle necessità: dalla condivisione del pane eucaristico deve derivare l’impegno di aiutare i fratelli, affinché nessuno soffra la necessità, e conseguire i beni promessi della eredità eterna che l’Eucaristia ci fa già pregustare, come recita la Colletta di questa domenica.
Nel nostro rapporto con Dio, anche noi, spesso, per le nostre debolezze, non ci poniamo in sintonia con la volontà di Dio. Ma il Signore nel Vangelo e il profeta Ezechiele ci dicono che colui che si allontana dal male commesso e si pente o chi, come il figlio della parabola, ripensando al suo rifiuto, si dispone a compiere la volontà di Dio e a lavorare per il suo regno, allora può sperare nella sua misericordia, che perdona e riaccoglie.
I farisei, a cui Gesù chiese chi avesse adempiuto alla volontà del padre, se colui che ha detto “ di non averne voglia ” ma " poi " l’ha adempiuta o l’altro che ha detto prima “sì” ma “poi” non l’ha fatta, risposero che il primo, pendendosi, si era adeguato al volere del Padre. Così Gesù, dice loro, che i peccatori, pubblicani e prostitute, sarebbero passati avanti nel Regno di Dio, perché questi hanno creduto nella via della giustizia predicata da Giovanni, loro invece no.
Per il Signore, infatti, c’è un “prima” e un “poi”, che fa la differenza, un tempo esistenziale di ripensamento, di ravvedimento, lungo o corto che sia, che può far cambiare dinanzi al Signore, la nostra prospettiva di vita, per il “nostro oggi” e per il “domani nel suo Regno”.
Prima Lettura: Ez 18,25-28.
Ognuno è responsabile personalmente delle proprie azioni, del bene o del male che compie. Così, dice il profeta nel nome di Dio, « se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male, e a causa di questo muore, egli muore per il male commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità … e compie ciò che è retto e giusto, fa vivere se stesso ». L’uomo, nella libertà di cui Dio lo ha dotato, può compiere azioni buone o azioni malvagie e, in base a queste, egli viene o condannato o fatto vivere. In base a questa possibilità di ritrarsi dal male il peccatore può allontanarsi dalle colpe commesse e vivere.
Seconda Lettura: Fil 2,1-11.
Il cristiano che è animato dalla carità, dal conforto di Dio, dalla comunione di spirito, da sentimenti di amore e compassione, deve vivere nella concordia e avere sentimenti unanimi, escludendo ogni forma di rivalità o vanagloria nel relazionarsi con gli altri e operare con « umiltà e senza cercare il proprio interesse ma quello degli altri ». In tutto questo si deve avere come modello Gesù Cristo, il quale pur essendo nella condizione di Dio, non « ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. …. Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome …». Così, conclude Paolo, bisogna avere gli stessi sentimenti che hanno animato Cristo e di proseguire, nel suo spirito, il suo modello di realizzazione della nostra dignità di figli di Dio.
Vangelo: Mt 21,28-32.
Davanti a Dio non bastano le buone intenzioni, bisogna agire operando la volontà di Dio come ha fatto Gesù e fare come il figlio della parabola che pur avendo detto, in un primo momento, di “non averne voglia” di andare a lavorare nella vigna, poi, pentitosi, vi andò, a differenza del secondo che disse subito di “sì”, ma poi non andò. Così, dice Gesù, i pubblicani e i peccatori pentiti, con la loro fede e conversione, precedono nel Regno di Dio tutti quelli che, ritenendosi giusti, non compiono la volontà del Signore. Deve esserci sempre un ravvedimento, a cui deve seguire la presa di coscienza di essersi allontanati dalla dignità di figli di Dio, ritornando pentiti e convertiti a lui, come pure è detto della parabola del figlio prodigo che, “ritornò in sé” e “pentito”, ritornò all’abbraccio del padre, che lo attendeva. Anche nella vicenda di Zaccheo, avviene questo cambiamento stabile di vita, con il proposito di restituire ciò che aveva rubato. I peccatori, che avvertono la consapevolezza di essere nel male, sono più aperti e ricettivi di coloro che, appagati da una giustizia formale, non corrispon- dono a quella che Dio vuole da loro, non accolgono l’invito a convertirsi e si chiudono al dono della grazia di Dio. Chi allora non si pente e non accoglie nella sua vita la volontà di Dio, pur avendo visto e sperimentato tutto ciò che Dio ha fatto e detto, non può entrare nel suo Regno: chi, infatti presume di essere già giusto non ha orecchie per ascoltare il vangelo della misericordia che Dio ha rivelato nel suo Figlio, il quale è venuto perché il mondo sia riconciliato e salvato.
Da quello che il Vangelo, nelle varie situazioni in cui si trova l’uomo, ci ha mostrato, davanti a Dio non contano solo parole di risposta alla sua volontà, ma l’adempimento di essa, non eseguita solo formalmente, ma con la consapevolezza di fede e di amore che dobbiamo a Dio, ad imitazione di Gesù, camminando nel nostro “oggi”, in cui, se per la nostra fragilità sperimentiamo il male, non dobbiamo disperare della misericordia che il Signore ha riversato sull’uomo. Bisogna pregare perché il Signore ci faccia conoscere le sue vie e ci guidi nella sua fedeltà. Che il Signore non ricordi i peccati e le nostre ribellioni, ma si ricordi di noi nella sua misericordia, che ci indichi la via e ci guidi, nella nostra povertà, secondo la sua giustizia.
Ultimo aggiornamento (Sabato 27 Settembre 2014 19:27)
Dio, nella sua bontà e generosità, è più grande dei nostri meriti.
21 SETTEMBRE - XXV Domenica del Tempo Ordinario.
Dio, nella sua bontà e generosità, è più grande dei nostri meriti.
Tutti siamo chiamati dal Padre celeste a lavorare nella sua vigna, ovvero nel suo regno, ognuno nel suo tempo e quando ci raggiunge il suo invito, la sua chiamata. Anche le vie e le modalità con cui il Signore ci chiama sono diverse da quelle che possono essere le nostre vedute o le nostre modalità diricompensa per averlo seguito. Tutti, senza discriminare nessuno, Dio Padre invita a partecipare al banchetto di nozze del suo Figlio, banchetto che siamo chiamati a vivere nell’Eucaristia, celebrata, la Domenica, nel giorno della risurrezione del suo Figlio. « Le sue vie, - diciamo nella preghiera iniziale di questa domenica - distano dalle nostre vie quanto il cielo dalla terra » e siamo invitati a aprire il nostro cuore e la nostra mente alle parole che il Signore Gesù ci rivolge, per comprendere che lavorare nella sua vigna è per gli uomini un impagabile onore. Comprendiamo ciò solo se siamo animati da quell’amore che Gesù ci chiede di vivere, verso il Padre, lui e verso i fratelli, in un servizio per il suo regno e non tanto per quella che potrà essere la ricompensa che ne deriva dall’aver speso il nostro tempo, più o meno lungo, a lavorare nella vigna del Signore. La grandezza evangelica del discepolo sta appunto nell’imitare il Signore che ha detto di essere venuto per servire.
Né possiamo biasimare Dio perché coniuga giustizia e misericordia secondo il suo insondabile agire: vorremmo forse applicare a Dio i nostri parametri, molto spesso intrisi di egoismo, di interessi umani, di compromessi poco onorabili? Vorremmo forse un Dio a nostra immagine o dobbiamo noi agire e pensare secondo Lui, di cui siamo immagine? Dio agisce ed opera nei confronti degli uomini nella gratuità e nell’amore e non come noi che pensiamo di meritare di più perché pensiamo di essere buoni e possiamo aver servito di più il Signore.
Che immagine abbiamo di Dio, che agisca e pensi come noi? Il suo agire è imprevedibile e non è soggetto a sentimentalismi, ad umori vari o ad interessi di felicità o di altro genere: egli ci ha amato tanto da dare, dice Gesù a Nicodemo, il suo stesso Figlio, come vittima per i nostri peccati e così riconciliarci con lui. Quello di Dio è un amore di gratuità che ci precede e supera i nostri schemi.
Da tutto ciò, forse, dovremmo ricomprendere la corretta relazione che dobbiamo avere con Dio, Creatore e Padre.
Prima lettura: Is 33,6-9.
Il brano del profeta Isaia invita alla conversione al Signore non solo l’empio, a cui si fa riferimento in maniera particolare, ma ogni uomo, perché, se l’empio abbandona la sua via e l’iniquo i suoi pensieri e ritornano al Signore, essi trovano in lui misericordia, in quanto Dio è disposto a perdonare largamente.
Cercare il Signore e invocarlo, ritornare a lui, come ci viene detto dal profeta, è nell’Antico Testamento un messaggio ricorrente che ridà all’uomo peccatore la speranza di potere sempre corrispondere all’amore di Dio. Il modo di pensare e di agire di Dio non è quello degli uomini che, spesso, sono propensi, ad operare in maniera diametralmente opposta a quella di Dio: le sue vie non sono le nostre vie, né i suoi pensieri i nostri; questi e quelle ci sovrastano e ci superano abbondantemente, tanto da non poterne misurare le distanze. Solo allontanandosi dal male e ritornando pentiti al Signore possiamo trovare perdono e restaurare la nostra vita, che i peccati di superbia, di orgoglio o di iniquità di ogni genere deturpano.
Per il popolo d’Israele, deportato in Babilonia, è molto più importante cercare il Signore che non una patria terrena. La liberazione che i deportati attendevano è diversa da quella che il Signore vuole realizzare per tutti gli uomini.
Seconda Lettura: Fil 1,20-24.27.
San Paolo ci ricorda che noi siamo e apparteniamo al Signore, sia che viviamo, sia che moriamo. La nostra vita di creature, fatte a immagine e somiglianza di Dio, non possiamo viverla sganciati da Lui. Se moriamo graditi al Signore è un guadagno per noi, sostiene Paolo; se continuiamo a vivere in Cristo e per lui e la nostra vita serve per lavorare con frutto nella “vigna del Signore” e per il suo Vangelo, che ben continui la nostra esistenza. Si porrebbe per tanti la difficoltà di scelta: e quale uomo, e anche il cristiano, non sceglierebbe forse di restare in vita, specie se siamo attaccati a questa vita più che a quella che avremmo in Dio? Occorre, allora, essere disponibile all’una o all’altra scelta e accogliere quel che il Signore dispone per ognuno di noi. Lavorare nella vigna del Signore è certamente la cosa più importante.
Vangelo: Mt 20,1-16.
Ascoltando oggi la parabola evangelica dei vignaioli, chiamati a lavorare nella vigna di quel padrone che dà, alla fine della giornata di lavoro, la stessa paga, pur avendo ognuno lavorato un periodo più o meno lungo della giornata, siamo chiamati a ricomprendere la corretta relazione che dobbiamo porre nei confronti di Dio, Creatore e Padre: viverla alla maniera con cui Gesù l’ha vissuta, cioè nella piena disponibilità alla sua volontà, pensando ed agendo secondo le sue vie e i suoi pensieri.
Dio, nella sua generosità, poiché agisce per amore verso tutte le sue creature e non per tornaconto, elargisce i suoi doni secondo il suo modo divino di agire e non secondo il modo di pensare o operare dei vignaioli . Se noi guardiamo più al merito per il lavoro svolto bene o al tempo lavorativo, Dio guarda alle necessità che può avere ogni uomo nella gestione della propria esistenza e di coloro con cui la condivide, così da dare un senso al lavoro e alla dignità di tutti coloro che lavorano per il suo regno. Non possiamo essere invidiosi di come Dio elargisce i suoi doni, né sindacare sul suo insondabile disegno di salvezza. Come nel dare la retribuzione il padrone inizia dagli ultimi dando un denaro a testa e coloro che protestano, pur avendo faticato tutto il giorno, ricevano anch’essi la stessa paga, Gesù, volendo far risaltare il modo giusto di agire di quel padrone che dà ai primi chiamati quanto pattuito e agli ultimi « Quello che è giusto ve lo darò », vuole farci comprendere che la misura del giusto è secondo il metro di Dio e non secondo il nostro. Se infatti guardiamo alla logica degli uomini: “tu hai prestato il tuo lavoro e io ti ho ricompensato con quello pattuito”, il padrone della parabola e Dio, sarebbero secondo il nostro modo di pensare e agire ingiusti, ma in un rapporto di amore entrambi hanno agito per pura gratuità e benevolenza.
Anche nella parabola del Figlio prodigo, la reazione del figlio maggiore all’atteggiamento di amore del padre parte da una logica puramente di interesse umano che non comprende l’agire misericordioso del padre, che riabbraccia il figlio ritornato pentito.
Se si continua a pensare a Dio in forma antropologica, elevando a lui, alla somma potenza, la proiezione della nostra umanità, anche e solo negli aspetti di bontà nostra, allora non possiamo comprendere la logica e l’operato del Dio di Gesù, che agisce secondo la sua misericordia, la sua generosità, il suo desiderio di riportare l’uomo al suo amore e secondo giustizia, ma intrisa di amore gratuito.
Nel significato evangelico non possono accampare più diritti, né il popolo ebreo, chiamato per primo a partecipare al regno di Dio, né i cristiani delle prime ore dell’annunzio evangelico rispetto ai pagani, chiamati all’ultimo momento, né dobbiamo essere invidiosi noi di fronte alla bontà e alla generosità di Dio. Bisogna essere contenti di ciò che Dio nella sua immensa bontà elargisce ad ognuno, al di là del merito di ognuno di noi. Chi può vantare d’altronde davanti un qualche merito?
Il Dio crocifisso, per chi crede in lui, ridona la Vita,
14 SETTEMBRE – XXIV DOMENICA del TEMPO ORDINARIO.
Il Dio crocifisso, per chi crede in lui, ridona la Vita.
Cristo con la sua croce ha redento il mondo e ciò sembra agli occhi di questo mondo qualcosa di inconcepibilmente paradossale: che un Dio abbia potuto esprime il suo amore per l’uomo attraverso la morte in croce del suo Figlio, fattosi uomo. Così un segno di umiliazione, di sofferenza e di morte diventa segno di liberazione dal peccato, di vita rinnovata dell’umanità nella comunione con Dio, di glorificazione del Figlio e promessa di salvezza e di risurrezione per gli uomini: « Dio nell’albero della Croce ha stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita ». Così, anche in noi, la vita divina si rinnova quando nella fede e nella speranza della Croce, cioè nelle sofferenze e in comunione con le sofferenze e il dolore redentivo di Cristo, ne diveniamo partecipi. La Croce, in cui il Signore è stato confitto, non dobbiamo ridurla a simbolo culturale o ornamentale ma segno di cui gloriarci, perché, guardando il Dio crocifisso e ed immedesimandoci nella sua passione, possiamo essere nella fede salvati.
La croce del Signore, dice san Paolo, come supplizio e patibolo, che infligge sofferenza e morte, irrisa da chi ha fortemente contrastato il cristianesimo, su cui anche oggi vengono condannati dei cristiani, è stata considerata, allora come anche dagli uomini di oggi, uno scandalo e una stoltezza di cui vergognarsi più che gloriarsi. Ma in questo albero, attraverso l’obbedienza del Figlio, Dio ha stabilito la salvezza dell’uomo, in contrapposizione all’albero per cui, per la disobbedienza del primo uomo, questi aveva interrotto il rapporto con il creatore.
Spesso, davanti all’agire di un Dio che per mezzo del suo Figlio crocifisso ha ridato all’uomo la salvezza o davanti alla sofferenza degli innocenti, l’uomo si chiede: « Cosa fa Dio di fronte al male che l’uomo compie e di fronte alla sofferenza? Perché non ferma la mano di chi compie il male ? Non poteva Dio evitare che il Figlio morisse, o che agli ’uomni, specie agli innocenti, non capitino sofferenze e morte?». Gesù, Parola che il Padre rivolge all’uomo, che sale sulla croce per amore al Padre e all’uomo, è la risposta definitiva di Dio al male e al male morale dell’uomo. Attraverso la sofferenza e la morte, Gesù con la potenza della sua resurrezione ha vinto il male e la morte, la quale credeva di aver ucciso il Figlio di Dio, ma aveva, come dice un autore antico, ingoiato il « Dio della vita »: così il male e la morte sono stati sconfitti per sempre.
Tutto questo mistero di salvezza, incomprensibile per l’uomo, che davanti al male ricevuto pensa subito alla vendetta, per Dio è espressione di amore che Egli ha per le sue creature, poiché non tollera che l’uomo creato per amore a sua immagine, potesse essere lontano dal suo amore di Creatore e Padre. La risposta di Dio al male non è rispondere con il male, ma con il perdono, per cui Gesù dalla croce esclama: « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34) e san Paolo ripete: « Se i dominatori di questo mondo avessero conosciuto il mistero della sapienza di Dio », realizzatosi in Gesù, suo Figlio, « non avrebbero crocifisso il Signore della gloria » (1Cor 2,7).
Prima Lettura: Nm 21,4-9.
Nel serpente di bronzo che Mosè per ordine di Dio eleva sopra un’asta, per essere segno di guarigione per gli Ebrei che nel deserto, ribellatisi a Dio, per punizione, sono morsi da serpenti velenosi e solo guardandolo sarebbero stati risanati, è preannunziata l’elevazione da terra di Colui che ha detto: « Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me », cioè di Cristo crocifisso che, prendendo su di sé le nostre iniquità, ci avrebbe risanato dai morsi del peccato e del maligno.
Seconda Lettura: Fil 2,5-11.
San Paolo, in questa celebrazione della Esaltazione della Santa Croce, ci ricorda che essa è per il seguace di Cristo, non motivo di vergogna o ignominia, ma di gloria, perché per mezzo di essa, Gesù Cristo, pur essendo di condizione divina, nel suo essere come Dio, si è abbassato, annientato e assumendo la condizione di servo, … si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Ma dal Padre egli è stato esaltato e ha ricevuto un nome davanti al quale ogni ginocchio deve piegarsi e ogni lingua deve proclamare che « Gesù Cristo è il Signore », a gloria di Dio Padre.
Così il cristiano è esortato da Paolo ad avere gli stessi sentimenti di Cristo per proseguire il suo spirito e il suo metodo, portando la croce insieme a lui, perché solo così si potrà giungere alla sua stessa gloria.
Vangelo: Gv 3,13-17.
Giovanni nel suo Vangelo fa risaltare fortemente il parallelo tra il serpente elevato da Mosè e Cristo, il Figlio dell’uomo innalzato sul legno della croce, da cui attira tutti a sé con il suo abbraccio misericordioso. Ma è necessario avere fede in lui, Dio crocifisso, se si vuole avere la vita eterna. Solo credendo, dice Gesù a Nicodemo, che il Padre, nel suo grande amore per gli uomini, ha mandato il suo Figlio unigenito e, se si crede in lui, si può avere la vita eterna.
Il Figlio infatti è stato mandato dal Padre nel mondo perché questi sia salvato.