





Dio, nella sua bontà e generosità, è più grande dei nostri meriti.
21 SETTEMBRE - XXV Domenica del Tempo Ordinario.
Dio, nella sua bontà e generosità, è più grande dei nostri meriti.
Tutti siamo chiamati dal Padre celeste a lavorare nella sua vigna, ovvero nel suo regno, ognuno nel suo tempo e quando ci raggiunge il suo invito, la sua chiamata. Anche le vie e le modalità con cui il Signore ci chiama sono diverse da quelle che possono essere le nostre vedute o le nostre modalità diricompensa per averlo seguito. Tutti, senza discriminare nessuno, Dio Padre invita a partecipare al banchetto di nozze del suo Figlio, banchetto che siamo chiamati a vivere nell’Eucaristia, celebrata, la Domenica, nel giorno della risurrezione del suo Figlio. « Le sue vie, - diciamo nella preghiera iniziale di questa domenica - distano dalle nostre vie quanto il cielo dalla terra » e siamo invitati a aprire il nostro cuore e la nostra mente alle parole che il Signore Gesù ci rivolge, per comprendere che lavorare nella sua vigna è per gli uomini un impagabile onore. Comprendiamo ciò solo se siamo animati da quell’amore che Gesù ci chiede di vivere, verso il Padre, lui e verso i fratelli, in un servizio per il suo regno e non tanto per quella che potrà essere la ricompensa che ne deriva dall’aver speso il nostro tempo, più o meno lungo, a lavorare nella vigna del Signore. La grandezza evangelica del discepolo sta appunto nell’imitare il Signore che ha detto di essere venuto per servire.
Né possiamo biasimare Dio perché coniuga giustizia e misericordia secondo il suo insondabile agire: vorremmo forse applicare a Dio i nostri parametri, molto spesso intrisi di egoismo, di interessi umani, di compromessi poco onorabili? Vorremmo forse un Dio a nostra immagine o dobbiamo noi agire e pensare secondo Lui, di cui siamo immagine? Dio agisce ed opera nei confronti degli uomini nella gratuità e nell’amore e non come noi che pensiamo di meritare di più perché pensiamo di essere buoni e possiamo aver servito di più il Signore.
Che immagine abbiamo di Dio, che agisca e pensi come noi? Il suo agire è imprevedibile e non è soggetto a sentimentalismi, ad umori vari o ad interessi di felicità o di altro genere: egli ci ha amato tanto da dare, dice Gesù a Nicodemo, il suo stesso Figlio, come vittima per i nostri peccati e così riconciliarci con lui. Quello di Dio è un amore di gratuità che ci precede e supera i nostri schemi.
Da tutto ciò, forse, dovremmo ricomprendere la corretta relazione che dobbiamo avere con Dio, Creatore e Padre.
Prima lettura: Is 33,6-9.
Il brano del profeta Isaia invita alla conversione al Signore non solo l’empio, a cui si fa riferimento in maniera particolare, ma ogni uomo, perché, se l’empio abbandona la sua via e l’iniquo i suoi pensieri e ritornano al Signore, essi trovano in lui misericordia, in quanto Dio è disposto a perdonare largamente.
Cercare il Signore e invocarlo, ritornare a lui, come ci viene detto dal profeta, è nell’Antico Testamento un messaggio ricorrente che ridà all’uomo peccatore la speranza di potere sempre corrispondere all’amore di Dio. Il modo di pensare e di agire di Dio non è quello degli uomini che, spesso, sono propensi, ad operare in maniera diametralmente opposta a quella di Dio: le sue vie non sono le nostre vie, né i suoi pensieri i nostri; questi e quelle ci sovrastano e ci superano abbondantemente, tanto da non poterne misurare le distanze. Solo allontanandosi dal male e ritornando pentiti al Signore possiamo trovare perdono e restaurare la nostra vita, che i peccati di superbia, di orgoglio o di iniquità di ogni genere deturpano.
Per il popolo d’Israele, deportato in Babilonia, è molto più importante cercare il Signore che non una patria terrena. La liberazione che i deportati attendevano è diversa da quella che il Signore vuole realizzare per tutti gli uomini.
Seconda Lettura: Fil 1,20-24.27.
San Paolo ci ricorda che noi siamo e apparteniamo al Signore, sia che viviamo, sia che moriamo. La nostra vita di creature, fatte a immagine e somiglianza di Dio, non possiamo viverla sganciati da Lui. Se moriamo graditi al Signore è un guadagno per noi, sostiene Paolo; se continuiamo a vivere in Cristo e per lui e la nostra vita serve per lavorare con frutto nella “vigna del Signore” e per il suo Vangelo, che ben continui la nostra esistenza. Si porrebbe per tanti la difficoltà di scelta: e quale uomo, e anche il cristiano, non sceglierebbe forse di restare in vita, specie se siamo attaccati a questa vita più che a quella che avremmo in Dio? Occorre, allora, essere disponibile all’una o all’altra scelta e accogliere quel che il Signore dispone per ognuno di noi. Lavorare nella vigna del Signore è certamente la cosa più importante.
Vangelo: Mt 20,1-16.
Ascoltando oggi la parabola evangelica dei vignaioli, chiamati a lavorare nella vigna di quel padrone che dà, alla fine della giornata di lavoro, la stessa paga, pur avendo ognuno lavorato un periodo più o meno lungo della giornata, siamo chiamati a ricomprendere la corretta relazione che dobbiamo porre nei confronti di Dio, Creatore e Padre: viverla alla maniera con cui Gesù l’ha vissuta, cioè nella piena disponibilità alla sua volontà, pensando ed agendo secondo le sue vie e i suoi pensieri.
Dio, nella sua generosità, poiché agisce per amore verso tutte le sue creature e non per tornaconto, elargisce i suoi doni secondo il suo modo divino di agire e non secondo il modo di pensare o operare dei vignaioli . Se noi guardiamo più al merito per il lavoro svolto bene o al tempo lavorativo, Dio guarda alle necessità che può avere ogni uomo nella gestione della propria esistenza e di coloro con cui la condivide, così da dare un senso al lavoro e alla dignità di tutti coloro che lavorano per il suo regno. Non possiamo essere invidiosi di come Dio elargisce i suoi doni, né sindacare sul suo insondabile disegno di salvezza. Come nel dare la retribuzione il padrone inizia dagli ultimi dando un denaro a testa e coloro che protestano, pur avendo faticato tutto il giorno, ricevano anch’essi la stessa paga, Gesù, volendo far risaltare il modo giusto di agire di quel padrone che dà ai primi chiamati quanto pattuito e agli ultimi « Quello che è giusto ve lo darò », vuole farci comprendere che la misura del giusto è secondo il metro di Dio e non secondo il nostro. Se infatti guardiamo alla logica degli uomini: “tu hai prestato il tuo lavoro e io ti ho ricompensato con quello pattuito”, il padrone della parabola e Dio, sarebbero secondo il nostro modo di pensare e agire ingiusti, ma in un rapporto di amore entrambi hanno agito per pura gratuità e benevolenza.
Anche nella parabola del Figlio prodigo, la reazione del figlio maggiore all’atteggiamento di amore del padre parte da una logica puramente di interesse umano che non comprende l’agire misericordioso del padre, che riabbraccia il figlio ritornato pentito.
Se si continua a pensare a Dio in forma antropologica, elevando a lui, alla somma potenza, la proiezione della nostra umanità, anche e solo negli aspetti di bontà nostra, allora non possiamo comprendere la logica e l’operato del Dio di Gesù, che agisce secondo la sua misericordia, la sua generosità, il suo desiderio di riportare l’uomo al suo amore e secondo giustizia, ma intrisa di amore gratuito.
Nel significato evangelico non possono accampare più diritti, né il popolo ebreo, chiamato per primo a partecipare al regno di Dio, né i cristiani delle prime ore dell’annunzio evangelico rispetto ai pagani, chiamati all’ultimo momento, né dobbiamo essere invidiosi noi di fronte alla bontà e alla generosità di Dio. Bisogna essere contenti di ciò che Dio nella sua immensa bontà elargisce ad ognuno, al di là del merito di ognuno di noi. Chi può vantare d’altronde davanti un qualche merito?
Il Dio crocifisso, per chi crede in lui, ridona la Vita,
14 SETTEMBRE – XXIV DOMENICA del TEMPO ORDINARIO.
Il Dio crocifisso, per chi crede in lui, ridona la Vita.
Cristo con la sua croce ha redento il mondo e ciò sembra agli occhi di questo mondo qualcosa di inconcepibilmente paradossale: che un Dio abbia potuto esprime il suo amore per l’uomo attraverso la morte in croce del suo Figlio, fattosi uomo. Così un segno di umiliazione, di sofferenza e di morte diventa segno di liberazione dal peccato, di vita rinnovata dell’umanità nella comunione con Dio, di glorificazione del Figlio e promessa di salvezza e di risurrezione per gli uomini: « Dio nell’albero della Croce ha stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita ». Così, anche in noi, la vita divina si rinnova quando nella fede e nella speranza della Croce, cioè nelle sofferenze e in comunione con le sofferenze e il dolore redentivo di Cristo, ne diveniamo partecipi. La Croce, in cui il Signore è stato confitto, non dobbiamo ridurla a simbolo culturale o ornamentale ma segno di cui gloriarci, perché, guardando il Dio crocifisso e ed immedesimandoci nella sua passione, possiamo essere nella fede salvati.
La croce del Signore, dice san Paolo, come supplizio e patibolo, che infligge sofferenza e morte, irrisa da chi ha fortemente contrastato il cristianesimo, su cui anche oggi vengono condannati dei cristiani, è stata considerata, allora come anche dagli uomini di oggi, uno scandalo e una stoltezza di cui vergognarsi più che gloriarsi. Ma in questo albero, attraverso l’obbedienza del Figlio, Dio ha stabilito la salvezza dell’uomo, in contrapposizione all’albero per cui, per la disobbedienza del primo uomo, questi aveva interrotto il rapporto con il creatore.
Spesso, davanti all’agire di un Dio che per mezzo del suo Figlio crocifisso ha ridato all’uomo la salvezza o davanti alla sofferenza degli innocenti, l’uomo si chiede: « Cosa fa Dio di fronte al male che l’uomo compie e di fronte alla sofferenza? Perché non ferma la mano di chi compie il male ? Non poteva Dio evitare che il Figlio morisse, o che agli ’uomni, specie agli innocenti, non capitino sofferenze e morte?». Gesù, Parola che il Padre rivolge all’uomo, che sale sulla croce per amore al Padre e all’uomo, è la risposta definitiva di Dio al male e al male morale dell’uomo. Attraverso la sofferenza e la morte, Gesù con la potenza della sua resurrezione ha vinto il male e la morte, la quale credeva di aver ucciso il Figlio di Dio, ma aveva, come dice un autore antico, ingoiato il « Dio della vita »: così il male e la morte sono stati sconfitti per sempre.
Tutto questo mistero di salvezza, incomprensibile per l’uomo, che davanti al male ricevuto pensa subito alla vendetta, per Dio è espressione di amore che Egli ha per le sue creature, poiché non tollera che l’uomo creato per amore a sua immagine, potesse essere lontano dal suo amore di Creatore e Padre. La risposta di Dio al male non è rispondere con il male, ma con il perdono, per cui Gesù dalla croce esclama: « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34) e san Paolo ripete: « Se i dominatori di questo mondo avessero conosciuto il mistero della sapienza di Dio », realizzatosi in Gesù, suo Figlio, « non avrebbero crocifisso il Signore della gloria » (1Cor 2,7).
Prima Lettura: Nm 21,4-9.
Nel serpente di bronzo che Mosè per ordine di Dio eleva sopra un’asta, per essere segno di guarigione per gli Ebrei che nel deserto, ribellatisi a Dio, per punizione, sono morsi da serpenti velenosi e solo guardandolo sarebbero stati risanati, è preannunziata l’elevazione da terra di Colui che ha detto: « Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me », cioè di Cristo crocifisso che, prendendo su di sé le nostre iniquità, ci avrebbe risanato dai morsi del peccato e del maligno.
Seconda Lettura: Fil 2,5-11.
San Paolo, in questa celebrazione della Esaltazione della Santa Croce, ci ricorda che essa è per il seguace di Cristo, non motivo di vergogna o ignominia, ma di gloria, perché per mezzo di essa, Gesù Cristo, pur essendo di condizione divina, nel suo essere come Dio, si è abbassato, annientato e assumendo la condizione di servo, … si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Ma dal Padre egli è stato esaltato e ha ricevuto un nome davanti al quale ogni ginocchio deve piegarsi e ogni lingua deve proclamare che « Gesù Cristo è il Signore », a gloria di Dio Padre.
Così il cristiano è esortato da Paolo ad avere gli stessi sentimenti di Cristo per proseguire il suo spirito e il suo metodo, portando la croce insieme a lui, perché solo così si potrà giungere alla sua stessa gloria.
Vangelo: Gv 3,13-17.
Giovanni nel suo Vangelo fa risaltare fortemente il parallelo tra il serpente elevato da Mosè e Cristo, il Figlio dell’uomo innalzato sul legno della croce, da cui attira tutti a sé con il suo abbraccio misericordioso. Ma è necessario avere fede in lui, Dio crocifisso, se si vuole avere la vita eterna. Solo credendo, dice Gesù a Nicodemo, che il Padre, nel suo grande amore per gli uomini, ha mandato il suo Figlio unigenito e, se si crede in lui, si può avere la vita eterna.
Il Figlio infatti è stato mandato dal Padre nel mondo perché questi sia salvato.
La correzione fraterna nella Chiesa.
7 SETTEMBRE – XXIII Domenica del Tempo Ordinario.
La correzione fraterna nella Chiesa.
Nel giorno del Signore, il Padre celeste ci invita al convito eucaristico e ci fa dono del suo Figlio, come « Parola » e « Pane di vita ». Gesù, la sapienza incarnata, è la Parola che in tutta la Scrittura Dio ci rivolge, per guidarci nelle scelte quotidiane della vita e così adempiere alla sua volontà, e il Pane di vita, che ci nutre e ci santifica con la sua presenza sacramentale.
Per questi doni, per tutto quello che ha compiuto per mezzo del suo Figlio e per tutti gli altri doni , ricevuti dalla Paternità di Dio, è « cosa buona e giusta », diciamo nella preghiera del Prefazio, rendere grazie a Dio e rendergli la nostra lode, la nostra adorazione in quanto figli adottivi, partecipi, in quanto membra di Cristo, della sua stessa eredità. Questa realtà di partecipazione al banchetto deve essere vissuta non tanto individualmente ma come comunità di fratelli, riuniti attorno a Cristo, nostro capo e Signore, affinché, diciamo nella colletta, « a tutti i credenti in Cristo sia data la vera libertà e l’eredità eterna ».
Il cammino del cristiano è sì un itinerario individuale di santità, ma inserito in un contesto di vita comunitaria, aperto all’more verso i fratelli.
L’amore che riceviamo da Dio in Cristo suo Figlio deve, come dice san Giovanni, essere vissuto amando i fratelli, perché non possiamo amare Dio che non vediamo se non amiamo i fratelli che vediamo.
Prima Lettura: Ez 33,1.7-9.
Il profeta, come sentinella, è portatore non di una sua parola, ma di quella di Dio, ed è tenuto ad annunziarla con fedeltà e integralmente. Così ognuno di quelli a cui si rivolge, posto davanti alla Parola, con il proprio senso di responsabilità, deve ascoltarla e compiere un cammino di conversione al Signore. Se l’empio, a cui Dio rivolge l’invito alla conversione attraverso l profeta, non viene da questi ammonito, per cui il malvagio non desiste dalla sua condotta perversa, allora la responsabilità « della morte del peccatore » ricade sul profeta. Se invece il profeta, adempiendo la sua missione, avrà ammonito l’empio a cambiare vita e questi non si converte, egli morirà per la sua iniquità, ma al profeta non sarà addebitata nessuna responsabilità.
Tutti noi, in merito alla nostra partecipazione battesimale alla realtà profetica di Cristo, siamo chiamati a dare testimonianza del bene a tutti, anche davanti a coloro che operano iniquamente, ricordando che è opera di carità spirituale « ammonire i peccatori e pregare per loro », anche se questo deve essere fatto con carità, nella fraternità, con discrezione e senza superbia.
Seconda Lettura: Rm 13,8-10.
L’osservanza del comandamenti, « Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai » e qualsiasi altro comandamento, sono compendiati in quello dell’ « Amare il prossimo tuo come te stesso », dice san Paolo, cioè nella carità che non fa male al prossimo e che è pienezza della Legge.
Tutti i comandamenti sono, allora, espressione dell’amore verso tutti gli uomini, che dobbiamo amare come fratelli, nella varie circostanze di relazione che poniamo tra noi e loro. Solo di questo amore che dobbiamo agli altri, dice ancora san Paolo, siamo debitori nei loro confronti. Di nulla altro.
Vangelo: 18,15-20.
In questo brano del Vangelo vengono dati degli insegnamenti che riguardano le relazioni tra i membri di una comunità, sia a livello privato, come anche quelle riguardanti atteggiamenti che possono arrecare scandalo nei fratelli, per cui tutta quanta la comunità ne è coinvolta, perché ne va
di mezzo la testimonianza del vangelo, che non è reso più facilmente credibile, e perchè viene meno anche la missione profetica della Chiesa.
La correzione fraterna, a cui siamo esortati da Gesù, deve, come abbiamo accennato nella prima lettura, essere considerata come un dovere fraterno ed essere vissuta con lo stile di Cristo, con la progressività di gesti che ricalcano lo stesso stile dell’agire della santità di Dio: la sua misericordia, illimitata e incondizionata. Così volendo imitare l’amore di Dio per noi, dobbiamo assumere come norma la necessità dell’amore per il fratello, operando nella correzione fraterna, per amore e con discrezione, con umiltà e con il desiderio di volere il bene del fratello, senza la presunzione di voler essere giudici.
Come diceva Dio ad Ezechiele che è costituito sentinella, tutti, come Chiesa, siamo chiamati ad essere “sentinelle”, vegliando per la sicurezza di tutti, vigilando affinché non ci sia distanza fra la vita dei fratelli di fede e la Parola di Dio, che indica la via da percorrere.
Davanti al dilagare del male tutti siamo coinvolti e dobbiamo esortarci a non lasciarci coinvolgere facilmente da esso. E’ allora che tutta quanta la Chiesa è coinvolta al comando di Gesù del « legare e sciogliere » in riferimento alle questioni importanti della vita spirituale e morale della testeimonianza cristiana. E’ questo un dovere che scaturisce dalla necessità di avere cura reciproca derivante dal vivere la fraternità nella comunità, compito che, ripetiamo, deve essere vissuto secondo le caratteristiche sopra accennate, tenendo sempre presente il bene del fratello e della comunità tutta. Vengono così ricostruiti quei legami ecclesiali, interrotti per atteggiamenti e comportamenti poco conformi alla Parola di Dio, tenendo sempre viva la fedeltà agli insegnamenti evangelici.
E' soprattutto nel Sacramento della Riconciliazione, attuando il comando di Gesù agli Apostoli la sera del giorno della risurrezione: « A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimettere resteranno non rimessi », che la Chiesa, a nome di Cristo che ha dato lo Spirito Santo, assolve al compito della riconciliazione dei peccatori, pur condannando i peccati e l’ostinazione che si può avere nei confronti di essi.
L’ostinazione nel male del fratello può, in casi estremi, giungere anche a considerarlo non più nella comunione ecclesiale, ma ciò non toglie, come scriveva sant’Agostino, di doversi prendere cura del peccatore, che non vuole considerarsi nostro fratello, e reiterare l’invito alla conversione. Pur riconoscendo e accettando la libertà personale del fratello, anche quando si opera un taglio con la comunità, ciò non toglie la necessità di pregare per lui e invitarlo a ritornare sui suoi passi, affidando solo a Dio il giudizio finale sul suo comportamento.
Seguire Cristo sulla via della croce è perdere la propria vita per ritrovarla nella risurrezione
31 AGOSTO – XXII DOMENICA del Tempo Ordinario.
Morire con Cristo, per risorgere con lui.
Il Signore Dio ci convoca nel giorno del memoriale della sua Pasqua. Egli ci parla con la sua Parola raccontandoci le sue meraviglie e in noi avvertiamo l’istanza, giusta e doverosa, di rendergli la lode e il nostro inno di ringraziamento, non solo con le parole ma soprattutto con la nostra vita.
In questo memoriale, il Padre celeste ci offre il suo Figlio come cibo e bevanda di salvezza. Rafforzati da questo sacramento, in cui sperimentiamo il grande amore con cui siamo stati amati, riceviamo la grazia per non lasciarci « deviare dalle seduzioni del mondo », per « discernere ciò che è buono e a lui gradito », per rispondere all’ amore del Padre con la nostra fedeltà di figli, all’amore di Cristo come discepoli, portando la propria croce dietro a lui sulle sue orme, e per porre, infine, la nostra vita al servizio dei fratelli, perché l’amore del Maestro si manifesti in modo genuino e sincero con le nostre opere nella fraternità.
Prima Lettura: Ger 20,7-9.
Geremia è avversato nella sua missione profetica, tanto da volersi defilare da questo compito, perché è fatto oggetto, ogni giorno, di scherno, di derisione e di obbrobrio da parte di coloro che non condividono il messaggio che egli annunzia. Egli, per farsi sentire, poiché non è ascoltato, deve gridare, urlare: « Violenza! Oppressione! ». Per questo pensa di non voler più parlare nel nome di Dio. Ma nel suo intimo egli avverte come un « un fuoco ardente, trattenuto nelle sue ossa », si sforza di contenerlo , ma non può, perché lo spinge a continuare la missione del Signore, che lo ha « sedotto » e il profeta si « è lasciato sedurre »: su di lui il Signore ha fatto violenza ed è prevalso. Ormai, quindi, la sua esistenza è tutta presa ed è inconcepibile se non nello svolgere fino in fondo la missione del Signore. Oltre che per Geremia, anche per ognuno di noi la vocazione cristiana, cioè corrispondere all’appello di Dio e dedicarsi fedelmente a Cristo, è un’avventura che, come per i santi, ci coinvolge nella profondità della nostra esistenza.
Avere sete di Dio, cercarlo, contemplarlo nel suo santuario, ammirare la sua potenza e la sua gloria, vivere dell’amore di Dio vale più della propria vita, ci fa cantare il Salmo responsoriale di oggi.
Seconda Lettura: Rm 12,1-2.
Ogni celebrazione liturgica, specie quella del sacrificio di Cristo, deve essere seguita da una vita coerente all’esempio del Signore. Paolo esorta i cristiani ad offrire se stessi, in tutta la loro realtà, in sacrificio vivente a Dio, perché è una continuazione di quello della croce del Signore: culto spirituale offerto attraverso le opere che si compiono animati dallo Spirito di Dio. Tutta l’esi-stenza cristiana, allora, se vissuta in conformità alla volontà di Dio, come quella di Gesù, nel rinnovamento del proprio modo di pensare, discernendo ciò che è buono, a lui gradito e perfetto, può essere offerta a Dio.
Vivendo così la liturgia, cioè inverandola nella vita, possiamo dire di vivere in profondità la nostra fede.
Vangelo: Mt 16,21-27.
La prospettiva della croce, che il Signore annunzia agli apostoli, appare un qualcosa di insopportabile a Pietro, che reagisce rimproverando Gesù dicendogli: « Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai ». E Gesù voltandosi verso di lui lo apostrofa decisamente: « Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini ». Così il disegno di Dio, per quanto strano possa sembrare, non può essere eluso e coloro che vi si oppongono e convincono altri a non viverlo sono tacciati come Satana, che svolge il compito precisamente di intralciare il procedimento e l’attuazione della volontà di Dio.
Seguire il Signore portando ognuno dietro a lui la propria croce è il destino di ogni uomo che vuole essere suo discepolo. Perdere la propria vita e donarla con Cristo non significa perderla ma ritrovarla nella sua pienezza, non significa rinnegarla, ma realizzare il più grande guadagno, perché solo morendo come Cristo, il seme porta frutto, e la prospettiva della risurrezione è la vera ricompensa che il Signore darà a chi è disposto a perdere la propria vita per lui e per il suo regno.
Professione di fede di Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente
24 AGOSTO- XXI DOMENICA del Tempo Ordinario.
Professione di fede di Pietro:Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
Nel giorno del Signore, il Padre celeste ci invita in santa assemblea, per celebrare il« sacrificio di Cristo », con cui il Signore Gesù ci ha riscattati e redenti dal peccato, versando il suo sangue prezioso per una nuova e definitiva alleanza. Così, innestati in Cristo attraverso il battesimo, siamo diventati «creature nuove», santificati dalla grazia e della vita divina che Dio ci ha dato, «pietre vive » per costruire il tempio santo di Dio, di cui Gesù è la pietra angolare e, illuminati dallo Spirito Santo, che inabita in noi, abbiamo acquistato, per dono gratuito di Dio, la libertà dei figli, per cui possiamo pregarlo: « Abbà, Padre !».
A questo grande dono della misericordia di Dio dobbiamo corrispondere aderendo come Cristo alla volontà del Padre celeste, rispondendo al suo amore attraverso l’osservanza filiale dei suoi comandamenti, sentendoli non come un gravame impraticabile ma come una luce che illumina i nostri passi, una via che ci guida alla ricerca del vero bene e ci conduce alla alla meta della vita eterna nella comunione trinitaria.
Prima Lettura: Is 22,19-23.
Il Signore ci chiede di essere fedeli al suo amore, per realizzare continuamente quel cammino di santità a cui chiama ogni uomo. Il profeta Isaia in questa lettura ci presenta l’atteggiamento di Dio che rigetta Sebna, maggiordomo del palazzo , che resosi infedele al compito a cui Dio lo aveva chiamato, gli viene tolta la « chiave del potere », e data a Eliakìm. Questi sarebbe stato rivestito della tunica, della cintura e avrebbe agito da padre per gli abitanti di Gerusalemme e di Giuda, nessuno avrebbe potuto chiudere ciò che egli apriva o aprire ciò che avrebbe chiuso: sarebbe stato « su un trono di gloria per la casa di suo padre ».
Seconda Lettura: Rm 11,33-36.
San Paolo, pieno di meraviglia, esalta la profondità, la sapienza e la conoscenza di Dio, perché il progetto salvifico di Dio, le sue scelte, le sue vie sono inaccessibili e insondabili i suoi giudizi. Forse che possiamo conoscere il pensiero del Signore, si domanda Paolo? O possiamo dargli qualche consiglio o qualche suggerimento per istruirlo, recita un Salmo? O qualcuno gli ha dato per primo qualcosa per poterne ricevere il contraccambio? All’uomo e, soprattutto, a colui che è chiamato a vivere come il suo Figlio Gesù è chiesto solo di adeguarsi alla sua santa volontà e, per quanto ci si possa impegnare a risolvere i problemi quotidiani, abbandonarsi, umili e fiduciosi, alla sua bontà di Padre, sicuri che, poiché da lui, per mezzo di lui e in lui sono tutte le cose, egli viene in soccorso a colui che gli è fedele, e nel giorno in cui lo invoca, recita il salmo di questa liturgia odierna, egli risponde. Il Signore, continua il salmo, nella sua grandezza guarda verso l’umile e il superbo lo riconosce da lontano. Per questo allora più che indagare sugli imperscrutabili disegni di Dio, poniamoci in atteggiamento di ringraziamento per tutto ciò che gli compie per le sue creature e per i suoi figli.
Vangelo: Mt 16, 13-20.
Anche a noi oggi Gesù, chiede: « Chi sono io per voi? E per te? ». Forse ricordiamo quello che ci ha trasmesso l’istruzione cristiana da bambini, ma, esistenzialmente, quale posto Egli occupa nella nostra vita? Certo è che non possiamo avere ognuno una opinione diversa, accettando di lui alcune cose e tralasciandone molte altre, specie la sua prerogativa principale che è quella di essersi dichiarato apertamente Figlio di Dio, uguale al Padre, perché chi vede lui vede il Padre che lo ha mandato, dice Gesù agli apostoli. Su questa identità divina di Gesù è in ballo la nostra fede, perché se è Dio, si esige che lo seguiamo imitandolo, continuando a realizzare le opere che egli ha compiuto a favore degli uomini, avendo detto agli apostoli che ne « avrebbero fatto di più grandi ».
Gesù chiede ai suoi discepoli che cosa dica la gente di lui. Essi, richiamandosi all’Antico Testamento, rispondono dicendo che alcuni lo ritengono Giovanni il Battista, altri Elia o Geremia o un qualunque profeta. Ma poiché tutte le risposte date dagli apostoli sono insufficienti e riduttive perché non colgono la sua vera ed unica identità, Gesù chiede loro: « E voi chi dite che io sia?». Essi sono preceduti da Pietro che, al di là di tutte le apparenze e opinioni della gente o di coloro che lo avversavano, esclama: « Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente ! ».
Gesù lo loda, dichiarandolo beato, perché non ha dato ascolto alla carne né al sangue, né alle opinioni o alle ragioni degli uomini, per i quali è difficile poter comprendere l’identità di un Dio crocifisso, ma ha accolto la rivelazione che il Padre gli ha fatto sulla sua identità. Per questa fede professata, cambiandogli il nome da figlio di Giona in Pietro, gli affida il compito e il ministero di guidare insieme agli altri apostoli la Chiesa, gli affida le chiavi del regno dei cieli, con cui può legare e sciogliere e di confermare come « pietra sicura » nella fede i suoi fratelli.
Questo ministero di servizio, che continua ad essere esercitato da colui che succede nella sede della Chiesa di Roma, non è un potere che blocca e deprime, ma un dovere di servizio per l’unità della fede e nella carità della Chiesa tutta, come testimonianza da rendere davanti agli uomini, perché si formi quell’unica Comunità di fede per la quale Gesù ha pregato nell’ ultima Cena.
Accogliendo, nella nostra piccolezza l’identità divina di Gesù, non vuol dire rinunziare alle nostre potenzialità conoscitive umane, donateci da Dio, per affidarci solo alla fede dei semplici, ma accogliere il dono della grazia che ci fa superare le nostre umane capacità conoscitive, per aprirci alle realtà divine.
Ultimo aggiornamento (Mercoledì 20 Agosto 2014 22:46)