





chi ama Cristo è amato dal Padre.
25 MAGGIO – VI Domenica di Pasqua.
Chi ama Cristo è amato dal Padre.
La nostra fede spesso è vissuta nel timore che Dio ci punisca. Essere cristiano significa che Dio è premuroso verso di noi, si preoccupa e ci ama come un padre provvidente. Ha mandato il suo Figlio unigenito, Cristo Gesù, che è morto per noi, per liberarci dalla morte e ci assicura che, anche se non possiamo vederlo, toccarlo, egli non ci lascia soli, perché il suo Spirito ci accompagna sempre.
Tutto il tempo pasquale è pervaso di letizia. Essa però non scaturisce dal successo delle nostre imprese terrene, o perché i nostri giorni non conoscono motivi di ansia. E’ la letizia che viene dalla costatazione e dalla certezza che siamo stati liberati dalla vera causa della tristezza, il Peccato, e che il Signore risorto ci ha riportati ad una speranza che non conoscerà delusioni: la speranza della gloria eterna con lui.
Bisogna che torniamo spesso – e perciò è provvida la domenica – a tutto quello che Cristo ha fatto e insegnato: allora non si inaridirà la ragione della nostra gioia. C’è in particolare una strada che mette in fuga l’avvilimento: è quella di uscire da noi, sull’esempio di Gesù che per il primo ha dato la sua vita per gli altri. Carità e letizia sono strettamente congiunte.
Prima Lettura: At 8,5-8.14-17.
Pietro e Giovanni effondono con l’imposizione delle mani la pienezza dello Spirito Santo. E’ questo dono di Cristo che ci rinnova, che mette in fuga gli spiriti immondi. Il peccato lascia come una traccia della presenza del demonio ma i battezzati, per la loro fede e per i sacramenti, ne sono liberati. Questa novità deve manifestarsi nel comportamento, nel percorso della strada della giustizia, come diceva la prima preghiera di questa messa.
Seconda Lettura: 1 Pt 3,15-18.
La lettera di Pietro è ricca di insegnamenti preziosi. Eccoli: occorre adorare il Signore Gesù nei nostri cuori, coltivare l’amicizia con lui attraverso il colloquio della confidenza e dell’orazione. Un altro insegnamento: dobbiamo rendere ragione, dire i motivi per cui crediamo, e questo comporta anche un impegno a studiare il Vangelo e a comprenderlo. Dobbiamo essere non irriguardosi, prepotenti e irritanti, ma dolci, leali, rispettosi. Non meravigliamoci infine se dobbiamo patire qualcosa per la fede, come Gesù, del resto, che è morto per noi. Ed ecco un principio che deve esserci di guida nella nostra condotta: « Se questa è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male».
Vangelo: 14,15-21.
Gesù, in questo brano del Vangelo, mette in continua tensione l’attesa e il possesso, la promessa e la realizzazione. Ai discepoli, che si sentono abbandonati per aver detto che dove lui andava loro non potevano andare, Gesù li chiama “figlioli ”, promette di non abbandonarli per sempre e di pregare il Padre perché dia loro lo Spirito Paraclito. Se Giovanni scrive queste parole dette da Gesù nell’ultima Cena dopo l’evento della risurrezione, l’averlo rivisto risorto diventa il compimento del suo permanere tra loro e per noi credenti, il vederlo nella visione della fede, diventa l’attuazione, nel nostro oggi, della promessa della sua presenza costante: « … Non vi lascerò orfani: verrò di nuovo ».
Questa presenza istaura una comunione nell’intimo di ogni discepolo, perché Gesù dice: « Io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi », dopo aver detto: « Io pregherò il Padre mio ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga sempre con voi » ( Gv 14,16). Così viene delineato il legame d’amore fra le Persone divine e il credente, legame esistenziale, concreto e pratico. La presenza della Trinità nella vita non è legata ad un luogo, il tempio, un luogo di culto, ma alla persona del credente.
Il tempo dello Spirito.
Il tempo che intercorre tra le parole dette di Gesù e il compimento delle sue promesse, il tempo della Chiesa e il nostro è animato dal suo Spirito, che realizza quelle promesse. Lo Spirito, che è Spirito di verità, ci fa comprendere la Parola di Gesù e ci dà la forza di testimoniarla, come avviene con la parola che predica Filippo presso i Samaritani, che credono e si convertono perché la testimonianza dell’apostolo rende credibile quella Parola. Ancora, in una comunità tribolata, come scrive san Pietro, lo Spirito anima la concretezza della vita cristiana: « E’ meglio soffrire operando il bene che facendo il male ». A sorreggere questa resistenza nel bene è la speranza che unisce, per mezzo della fede, a Cristo anche nei momenti delle tribolazioni. Questa testimonianza, tradotta in opere concrete, interroga anche i non credenti, a cui bisogna essere « sempre pronti a rispondere a chiunque vo domandi ragione della speranza che è in voi » ( Pt 3,15)
La presenza dello Spirito promesso è un dono che si riceve solo se il discepolo si decide ad accogliere l’invito di Gesù: « Se mi amate, osserverete i miei comandamenti … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama » (Gv 14,15.21). Così l’amore non è un semplice sentimentalismo, perché si modella sul suo, poiché dice: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » ( Gv 15,17).
Presso di noi, dunque, abita lo Spirito Santo, chiamato da Gesù il Paraclito, il consolatore, che porta la verità, che è Gesù stesso e il suo Vangelo. Ma il luogo dove lo Spirito abita è il cuore dei discepoli di Gesù, mediante la grazia. Gesù dice un’altra cosa nel brano che segue: « Non vi lascerò orfani ». E infatti lo Spirito Santo è il segno che Cristo è con noi e non ci abbandona a noi stessi, alla nostra solitudine. Poi ci sarà il suo ritorno glorioso, quando lo vedremo insieme col Padre. Sarà già il momento della morte, che allora non va aborrito, ma per questo motivo atteso con gioia, si direbbe perfino con impazienza. Però adesso si devono mettere in pratica i comandamenti di Gesù: « Chi li osserva, questi è colui che mi ama ». Ecco un principio fondamentale e chiarissimo. Le parole da sole non sono indice di amore.
Gesù si proclama:Via, Verità e Vita.
18 Maggio – V Domenica di Pasqua.
Gesù, Via, Verità e Vita.
Oggi siamo chiamati a riflettere sul ruolo che ha Cristo nella nostra vita.
Gesù, a Tommaso che gli chiede di non conoscere la via dove va, si dichiara l’unica Via che conduce al Padre, come Verità della rivelazione, come unica Vita autentica. A Filippo, che gli chiede di mostrargli il volto del Padre, Gesù risponde: « Chi vede me, vede il Padre …. Io sono nel Padre e il Padre è in me ». Gesù, come unico rivelatore del Padre, immette nella intimità che c’è tra il Padre e il Figlio, perché dice:« Io sono nel Padre e il Padre è in me » e ai discepoli chiede: « Rima- nete in me ed io in voi » (Gv 15,4). Questa intimità si realizza oggi con la mediazione del Cristo risorto, presente nella Parola delle Scritture, attraverso la sua presenza nel pane e nel vino, con il suo Corpo e il suo Sangue, per opera dello Spirito Santo.
Voler essere suoi discepoli significa allora seguirlo in questo cammino, con la consapevolezza della nostra miseria per giungere alla piena comunione con Dio e i fratelli.
Quale sensazione non hanno provato gli apostoli nel sentire Gesù che dice loro: « Figlioli, ancora un poco sono con voi … Dove vado io, voi non potete venire », essi che avevano scommesso la loro vita nel seguirlo, pensando ad attese inerenti l’esistenza terrena?
All’annunzio dell’assenza del maestro sarà seguita in loro la sensazione dell’abbandono. Per questo Gesù continua dicendo: « Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me »(Gv 14,1). Gesù chiede loro di avere fede nel Padre e in lui e viceversa. Ma contem-poraneamente promette che essi saranno immessi nella intimità che vi è tra lui e il Padre e tale promessa deve far superare loro il turbamento causato dall’annunzio improvviso della sua assenza. E quando si sarebbe verificata questa promessa di intimità? Bisognava aspettare la fine dei tempi per la sua realizzazione o subito dopo la morte? Come vivere nell’oggi l’efficacia della promessa di Gesù?
« Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi »: è l’invito festoso che apre oggi la liturgia. Sappiamo bene quali sono questi prodigi che solo Dio ha potuto fare e per i quali dobbiamo rallegrarci: sono la liberazione vera, cioè dal peccato, la rigenerazione a figli di adozione, la chiamata all’eredità eterna. Cantiamo, quindi, un canto nuovo perché siamo divenuti « primizie di umanità nuova », quella che nasce dallo Spirito ed è edificata « in sacerdozio regale, popolo santo, tempio della gloria di Dio ». Non è un sogno e non sono vaghe parole. Lo avvertiamo in proporzione della nostra fede. Questa deve poi maturare in opere di cui la più importante è l’amore. In un’orazione la Chiesa domanda di sapere accogliere « come statuto della vita il comandamento della carità ». E’ tutto qui, ma è il segno che siamo portatori efficaci e credibili di un’altra umanità.
Prima Lettura: At 6,1-7.
Anche nella Chiesa primitiva sorgono screzi e dissapori. Non dobbiamo idealizzarla. Là dove ci sono degli uomini, ci sono limiti e imperfezioni. La ragione qui è il disservizio delle mense, e quindi della carità che si manifesta con l’« assistenza quotidiana ». Gli apostoli provvedono ma non in qualche modo, bensì scegliendo « sette uomini di buona reputazione, ripieni di Spirito e di sapienza ». Queste tre caratteristiche sono esemplari: la reputazione buona, la pienezza dello Spirito Santo, la saggezza. Diversamente non si può presiedere , si tratti pure del servizio delle mense. Ci fanno riflettere anche le parole degli apostoli: « Noi ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola » che sono sentiti come più propriamente ed essenzialmente un ministero apostolico. Se questo fosse trascurato, essi sarebbe infedeli alla missione. Neppure la carità ci potrebbe più essere, alla fine. Sarebbe grave se questo senso del primato della preghiera e della predicazione venisse meno e ci si occupasse d’altro o di ciò che altri nella comunità cristiana più convenientemente dovrebbero fare. Non si tratta di mettere in antitesi servizio « alle mense » e preghiera e predicazione, ma di articolarli in un giusto rapporto.
Seconda Lettura: 1 Pt 2,4-9.
San Pietro, rivolgendosi ad una comunità che vive l’assenza corporea di Gesù, dice :« Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo cre-dete in lui » (1 Pt 1,8). Essi sono stati aggregati attraverso il Battesimo a Cristo e formano in lui, « pietra d’angolo », un tempio, mentre per coloro non credono, Gesù è « pietra di scandalo » perché essi « non obbediscono alla Parola », cioè non credono al Vangelo. La fede è credere nella Parola di Dio e la vita cristiana è sottomettersi ad essa.
La Parola che ci raggiunge tramite le Scritture e soprattutto con Gesù, Parola fatta carne, suscita in noi la fede e da questo rapporto con la Parola e con Cristo sgorga il ministero della Chiesa che continua l’opera del suo Signore. Gli Apostoli affrontano la crisi organizzativa della comunità stabilendo delle priorità: « Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio … Noi, invece, ci dedichiamo alla preghiera e al servizio della Parola »( At 6,2-4).
Oggi si parla, spesso anche a sproposito, di « laici » e di « laicato». Va bene, se si conserva viva la consapevolezza che un cristiano, prete o no, è un consacrato. Tutti i credenti formano « un sacerdozio santo ». Tutti, « quali pietre vive », sono costituiti « come edificio spirituale », così da potere offrire « sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo ». Questi sacrifici spirituali sono la nostra vita vissuta in grazia, le nostre opere animate dallo Spirito Santo. Questo è possibile se ci uniamo nella Eucaristia al sacrificio offerto da Cristo sulla croce.
Siamo un « edificio spirituale »: non varrebbe nulla una bella chiesa di pietre, se a formarla non fossimo noi con la nostra fede e la nostra carità. La chiesa di pietre è solo un segno e un aiuto: è in noi, nella comuni-tà cristiana, che Dio dev’essere presente. Siamo noi chiamati « stirpe eletta, nazione santa, popolo di Dio », luogo della proclamazione del Vangelo, cioè delle opere della salvezza. E’ come dire che i cristiani rigettano tutto quanto è contrario alla santità, ogni forma di peccato.
In questo senso essi sono separati dal mondo, consacrati a Dio, destinati a collaborare alla redenzione del mondo e, in questo senso, a essere sacerdoti.
Vangelo: 14,1-12.
Non vediamo in modo sensibile il Signore, ma non per questo egli è lontano. Anzi, proprio perché asceso al cielo, alla destra del Padre, può essere presente, e lo è di fatto soprattutto nell’Eucaristia, dove non si trova il Corpo morto di Gesù, ma Gesù vivo, nell’atto di donarsi al Padre e a noi, e quindi nell’atto del suo sacrificio, che è principio di risurrezione e di vita.
Non deve mai mancarci la fiducia. Risentiamo la sua esortazione: « Non sia turbato il vostro cuore. Vado a prepararvi un posto. Verrò di nuovo e vi prenderò con me ». Su questa promessa di Gesù poggia tutta la nostra sicurezza. La morte non sarà il tragico crollo di tutte le speranze, ma la venuta di Cristo a prenderci per portarci a vivere eternamente con lui e con il Padre. Non è meraviglioso tutto questo, in mezzo alle difficoltà che ci assalgono ogni giorno? Quello che importa secondo Gesù è « avere fede» nel Padre e in lui.
Gesù.buon pastore, guida e porta per la salvezza.
11 Maggio – IV Domenica di Pasqua.
Cristo Gesù che ci libera, ci conduce alla salvezza.
Gesù che si presenta come il buon pastore è, ancora oggi, colui che accudisce, guida e conduce il popolo di Dio. Egli dice che al di fuori di lui non c’è salvezza e senza la sua croce non c’è risurre-zione.
La Chiesa, che ha come origine e punto di arrivo Cristo, è chiamata a mettersi a servizio dell’umanità e a rinnovarla con il suo sacrificio.
A volte ci domandiamo, attanagliati dal dubbio, più o meno doloroso, più o meno violento: e se Dio non esistesse? Spesso tale situazione di crisi può essere positiva per una fede più autentica. Infatti, a seconda di come pensiamo Dio, assumiamo di conseguenza atteggiamenti e realizziamo relazioni diverse con lui.
Ogni credente dovrebbe porsi la domanda: « Chi è Dio per me? »;« In chi ripongo la mia fiducia di salvezza? ». Il cristiano, come dice San Pietro, è colui che con certezza accoglie il messaggio che « Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che avete crocifisso ». Forse anche noi, se fossimo stati lì, anche non operando in solido per la sua crocifissione materialmente, saremmo stati come gli undici: dovremmo convincerci che Gesù non è stato crocifisso solo per il peccato di quelli soli. La sua morte ha una portata universale: è morto per tutti, di ogni tempo e di ogni luogo.
La sfida dell’incredulità può essere vinta con l’atteggiamento di affidamento, di abbandono in Dio, come ha fatto Gesù nel momento della prova.
Con la parabola del Buon Pastore Gesù ci dice che egli conosce, chiama, conduce, cammina davanti alle sue pecore e queste riconoscono la sua voce e lo seguono. Con questa similitudine, facilmente compresa dagli uomini di allora, Gesù vuol farci comprendere la relazione che si pone tra lui e coloro che sono suoi discepoli: una relazione di appartenenza « siamo sue pecore », di affezione « ci conosce uno ad uno e ama », di guida « come il pastore che sta alla testa delle sue pecore » che lo seguono con fedeltà e amore. Il pastore conduce le pecore verso la libertà di « pascoli ubertosi ».
L’ immagine del buon Pastore, che tratta e accudisce le sue pecore con amore e sollecitudine, è ben diversa da quella di un Dio che incute timore, ma comporta, da parte delle pecore, una relazione esclusiva con il Pastore: relazione nuova che ci fa accogliere Cristo come porta d’ingresso nella salvezza. Essendo egli rivelazione del Padre, è mediazione unica fra Lui e l’umanità. Egli è l’unica guida alla libertà, che è dono gratuito, salvezza ricevuta, accettata e corrisposta con amore.
La giustificazione che Dio ci dà è sempre dono gratuito.
Un « umile gregge »di fedeli: siamo chiamati così oggi in una preghiera. Ma un gregge con il proprio pastore, Gesù risorto. Si tratta di seguirlo con sapienza e costanza, di riconoscerne la voce, e di lasciarsi condurre da lui, mentre siamo « fra le insidie del mondo ». Saremmo sprovveduti se chiudessimo gli occhi su queste insidie o se pensassimo di potercene preservare da soli. Come pastore, Cristo « ci guida alle sorgenti della vita»: è vita la sua parola, lo sono i suoi sacramenti, che ci risanano e ci legano a lui. L’immagine del gregge richiama quella dell’unità. Gesù « raduna gli uomini dispersi nell’unità di una sola famiglia ». L’unità dipende anche da ciascuno di noi, nella misura in cui supera e vince tutti i motivi di divisione, anche i più nascosti.
Prima Lettura: At 2,14.36-41.
Un crocifisso, Gesù di Nazaret, costituito Signore e Messia: è quanto predica san Pietro suscitando in quelli che hanno messo in croce il Cristo una trafittura del cuore, il pentimento, la domanda del Battesimo. I frutti di questa accoglienza sono: la remissione dei peccati, l’effusione dello Spirito Santo, l’appartenenza alla comunità cristiana. E’ quello che è avvenuto per noi: conversione, Battesimo, perdono, grazia dello Spirito, inserimento nella Chiesa. Se la conversione non ha preceduto il nostro Battesimo, essa deve avvenire giorno per giorno; se non abbiamo appeso Gesù alla croce, però i nostri peccati vi hanno gravato.
Seconda Lettura: 1Pt 2,20-25.
San Pietro in questa lettura afferma che Gesù è modello, esempio di vita e artefice della salvezza. Se la passione è frutto dell’obbedienza di Gesù al Padre e al progetto di salvezza da questi disposto, con il gesto di donare la vita del pastore per le sue pecore, Gesù esprime la sua solidarietà con gli uomini che vengono costituiti suoi fratelli. Egli raduna, come il pastore le sue pecore, i figli di Dio che erano dispersi e custodisce le anime dei credenti nell’ « ovile del Padre », realizzando così la figura biblica del messia pastore. La salvezza che egli porta passa attraverso la croce (1Pt 2,24), strumento della nostra vita, perché Gesù dice di « essere venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore »(Gv 10,10-11).
La sopportazione paziente della sofferenza ha un modello concreto: Cristo, che ha patito per noi, che ha accettato con fiducia e mansuetudine gli oltraggi, che ci ha guarito proprio con le piaghe aperte sul suo corpo dai nostri peccati. In qualche situazione siamo anche noi oggetto di persecuzione, di ingiustizia. Non può mancare, come atteggiamento fondamentale e decisivo, l’affidamento che rimette la nostra causa « a colui che giudica con giustizia », a Dio che tiene conto di tutto. Questa certezza induce anche al timore. Non illudiamoci: Dio ci giudicherà con giustizia, e non ci sarà scusa per nessuna furbizia, anche se prima sarà riuscita a ingannare gli uomini.
Vangelo: Gv 10,1-10.
Pastore esemplare nella Chiesa è Gesù: è lui a guidare i credenti. Nel brano di Vangelo di Giovanni egli si presenta come la « porta delle pecore », attraverso la quale esse passano per entrare nell’ovile e per uscire al pascolo. L’immagine rende la figura di Gesù mediatore. Non ci sono altri spazi e altri passaggi di salvezza: « Se uno entra attraverso di me, sarà salvato ». L’area della redenzione è tutta ricoperta dalla sua opera. Ossia: dal suo sacrificio, essendo venuto a dare la vita e a darla in abbondanza con il dono di se stesso. Cristo è così l’antitesi del ladro, dello sfruttatore. Il Signore risorto è il pastore della Chiesa: è lui che essa ascolta, di lui segue il cammino. Attenzione quindi ma non seguire altre voci e altri capi: sono estranei tutti quelli che non passano da lui. E’ un richiamo a quanti nella Chiesa hanno il ministero, perché rappresentino fedelmente Cristo; ed è un invito a rendere grazie perché nell’episcopato, in comunione con il Papa, siamo sicuri di trovare il segno visibile di Gesù pastore e porta.
L'incontro di Gesù con i due discepoli ad Emmaus.
4 MAGGIO – 3a Domenica di Pasqua
L’incontro con i due discepoli di Emmaus.
Con la risurrezione di Gesù inizia il cammino della Chiesa e quello dei due discepoli, che vanno verso Emmaus e lo riconoscono nello spezzare il pane.
Questo cammino rappresenta il percorso di fede che parte dall’ascolto delle Scritture, culmina nello spezzare il pane dell’Eucaristia, memoriale del sacrificio di Cristo, e rimette i discepoli in cammino di testimonianza di quello che hanno sperimentato con il Signore risorto.
I discepoli di Emmaus fanno trasparire delusione e tristezza, perché gli eventi che attendevano non si sono verificati e, perciò, la loro speranza è infranta. Sono frustrati per il fraintendimento che essi hanno della figura del Messia, che non contempla la passione, per cui la notizia della risurrezione di Gesù resta per loro inaccessibile. Essi, mentre si allontanano da Gerusalemme, si allontanano dal luogo della crocifissione, dalla comunità dei discepoli. Conversano e discutono manifestando una memoria conflittuale degli eventi accorsi a Gesù e nel pellegrino, che si accompagna loro lungo il cammino, non riescono a riconoscerlo e comprenderlo risorto.
Il pellegrino, a differenza dei due, interpreta le Scritture e gli eventi partendo dalla gloria: « Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria ?» (Lc 24,26). Gesù inserisce la passione all’interno del piano di salvezza che ha il suo centro nella risurrezione. Egli, con delicatezza, accompagna i due nel cammino di fede, così come la Chiesa è chiamata a fare con gli uomini di oggi, accostandoli, ascoltandoli, camminando con loro e accompagnandoli con pazienza, fino a far loro scoprire la sua presenza: « quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro » (Lc 24,30).
Con il richiamo dell’Ultima Cena, Gesù lega l’Eucaristia agli eventi pasquali e viceversa, rendendoli attuali ed efficaci quando vengono rivissuti nel suo memoriale. Così i discepoli, riconoscendolo nello stesso momento in cui scompare e sostituendo alla vista e percezione fisica la fede in lui, rileggono il loro cammino e la vicenda di Gesù alla luce dell’esperienza del Risorto.
La comunità ricostruita.
Incontrare Gesù risorto comporta un ritornare dagli altri fratelli, per raccontare la propria esperienza del Signore e, come i due, « Ritrovare riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro »(Lc 23,33). Così ci si riconosce nella comunione ecclesiale, dalla quale ci si allontana per vari motivi, e che intorno alla fede nel Risorto viene ritessuta.
In tutte le letture della Parola di Dio di questa domenica centrale è la narrazione degli eventi pasquali, con tutte le emozioni e livelli di comprensione propri dei vari personaggi a cui Gesù appare.
Il Cristo risorto è sempre presente nella Chiesa, specialmente nei sacramenti pasquali, cioè nell’Eucaristia. In essa noi lo riconosciamo come il Cristo crocifisso e risorto, che ci accompagna nel nostro pellegrinaggio nel mondo. Lo riconosciamo non separati l’uno dall’altro, ma tutti insieme. La comunità cristiana, che si raccoglie per spezzare il pane, è il segno dell’ « umanità nuova pacificata nell’amore », l’amore che deriva dal Figlio di Dio, « vittima di espiazione per i nostri peccati ».
Siamo fratelli, dotati dell’identica e della più grande dignità che è quella di essere figli di Dio. Parte da qui la carità vicendevole e la speranza di essere un giorno in comunione con Gesù risorto. Rimeditando questo e applicandoci a metterlo in pratica, facciamo l’esperienza della « rinnovata giovinezza dello spirito » di cui parla una colletta. Gli anni che trascorrono possono sì lasciare in noi tracce di vecchiezza, ma non nella vita interiore che già è una condivisione della risurrezione di Gesù.
Prima Lettura: At 2,14.22-33.
Dopo lo strazio della passione, sopportata per portare a compimento il piano divino, misterioso e salvifico, Gesù è risuscitato dal Padre. Così, quello che era un fallimento risulta una riuscita. Adesso quel che importa è di accogliere tutta la grazia contenuta nel mistero della morte e della risurrezione. Non sappiamo per quale ragione Dio per la salvezza dell’uomo abbia scelto il cammino della croce: appartiene al suo segreto insondabile. Di fatto dalla croce fluisce la grazia che ci riconcilia con lui.
Seconda Lettura: 1 Pt 1,17-21.
La narrazione degli eventi pasquali, sui quali questa lettura ci fa riflettere, sottolinea i risvolti pratici che essi hanno nella vita dei credenti: la Chiesa è la comunità di coloro che credono in Dio e si riconoscono nella comune fede nel Cristo crocifisso e risorto.
Se siamo stati liberati dal peccato con un prezzo altissimo, impensabile: il Sangue di Gesù, ne proviene che siamo stati amati con un amore davvero grande, immenso, poiché il Figlio di Dio ha dato per noi la sua vita e ci ha posti in rapporto filiale col Padre (1 Pt 1,21).
Dunque l’uomo deve ben contare agli di Dio, se per liberarlo Gesù è morto in croce. E’ un disegno – come dice san Pietro – che è stato oggetto della scelta divina « già prima della fondazione del mondo »: disegno eterno, manifestatosi negli ultimi tempi « per voi ». Cioè per tutti noi, e per ogni uomo che in Gesù è stato concepito e salvato.
Se i cristiani, nel mondo, vivono come stranieri, ciò non significa che sono alieni. Anzi, un cittadino straniero partecipa attivamente ed con pieno coinvolgimento nella terra dove abita, ma contemporaneamente sa di essere cittadino di un’altra patria, quella verso la quale il cristiano si sente in cammino. Questo è il senso del camminare dei due discepoli del Vangelo verso l’Emmaus, come anche il nostro: siamo in cammino, condividendo un tratto di percorso, accompagnati da Gesù che ci spiega le Scritture e ci fa comprendere, coinvolgendoci, le sue vicende, fino al suo riconoscerlo risorto nello spezzar del pane.
Vangelo: Lc 24,13-35.
I discepoli di Emmaus sono guidati da Gesù a rileggere la Scrittura e a trovarvi che la passione sopportata dal Signore, per entrare nella gloria, non è stato un incidente improvviso e contrario al disegno di Dio, ma ne è stata il compimento. Questa « provvidenza » della passione ora prosegue in noi, non senza suscitare incomprensione a motivo della tardezza e ottusità del nostro cuore. Dobbiamo anche noi tornare alle Scritture per attingervi conforto alla fede e alla speranza. Dobbiamo chiedere a Gesù che sia lui a introdurci in esse e a spiegarcele in modo tale che ci arda il cuore, come ai due discepoli.
Osserviamo poi che Gesù è riconosciuto alla frazione del pane, all’Eucaristia: là è avvertita la sua presenza e la sua compagnia. Spiegazione delle Scritture e frazione del pane: è già la nostra Messa, cui prendiamo parte per poter compiere con Gesù la nostra Pasqua.
Domenica in Albis o della Divina Misericordia.
27 Aprile – II Domenica di Pasqua.
Domenica in « albis » o della « Divina Misericordia ».
Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto.
Ogni domenica commemoriamo la Pasqua del Signore, la sua risurrezione, che noi accogliamo nella fede, per cui, come disse Gesù a Tommaso « siamo beati perché crediamo senza aver visto ».
Gesù risorto appare agli apostoli che lo riconoscono e noi sulla loro testimonianza fondiamo la nostra fede, che ha sorretto lungo i secoli, in mezzo alla tribolazioni e il martirio, i credenti in lui.
L’episodio di Tommaso, che non vuole credere se prima non tocca e non vede, ha fatto di lui un discepolo incredulo, un resistente alla fede, ma è il prototipo dell’uomo di sempre. Egli, che aveva visto la radicalità e la potenza della morte di Gesù, non può accettare la sua risurrezione. E se il Risorto non fosse il crocifisso? Avrà pensato. Se così, l’annunzio degli apostoli non avrebbe avuto valore. Ma otto giorni dopo, quando anche Tommaso è con gli altri nel Cenacolo, davanti a Gesù che lo invita a toccarlo e a mettere le sue dita nel foro dei chiodi e la sua mano nel costato, egli, profondamente sconvolto, professa la sua fede dicendo : « Mio Signore e mio Dio ». Questo di Tommaso è un traguardo a cui giunge attraverso un travaglio interiore, di ricerca, di domanda e di sfida per una fede facile e superficiale. Come a Tommaso, anche a noi, Gesù dice di « non essere più increduli, ma credenti »: davanti al problema del male è facile cadere nell’incredulità. E Gesù allora proclama « beati quelli che non hanno visto e hanno creduto ». La vicenda di Tommaso, con la sua preghiera-adorazione – come risposta al Risorto, può essere anche la nostra.
Così il mostrare le piaghe da parte di Gesù risorto nel suo corpo glorioso accentua lo scandalo del male, perché segni della sua passione.
Davanti all’enigma del male, a cui l’uomo con la sua riflessione teologica, filosofica, psicologica non ha saputo dare una soddisfacente spiegazione, Dio, nel suo Figlio, lo affronta e lo vince e non dà spiegazioni razionali di esso, se non ponendo l’atteggiamento dell’amore, che per dimostrarlo a chi si ama, si è disposti a donare la vita.
Nuova evangelizzazione.
Dalla fede nel Risorto, per coloro che credono in lui, nasce un nuovo stile di vita. Ripensiamo al sangue che ci ha liberato, allo Spirito che abbiamo ricevuto, e quindi in modo particolare al Battesimo che è stato l’inizio della nostra comunione al mistero pasquale.
A queste meraviglie della salvezza deve corrispondere « il frutto della vita nuova » e la testimonianza a Gesù Vivente che, nelle nostre opere, comporta: - l’essere assidui « nell’insegnamento degli apostoli, ( ascolto del vangelo ); - nella « comunione fraterna » (condivisione dei beni ); - nello «spezzare il pane » ( celebrazione dell’Eucaristia); - nelle « preghiere » ( pratica costante della relazione con Dio ) ». Con questa testimonianza, che comporta ciò che la comunità deve vivere e realizzare e non fidando in progetti e marketing, « Il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati ».
Al « timore dei giudei », forti della presenza dello Spirito, i discepoli e i credenti in Gesù sostituirono una missionarietà fondata sulla fedeltà al mandato di Gesù di annunziare la sua risurrezione, anche a costo di andare incontro a persecuzioni o peripezie varie. Chiudersi nella propria referenzialità o nella pigrizia della propria intima testimonianza senza il coraggio dell’annunzio, badare solo alla propria sopravvivenza nell’ambito della propria comunità o nel proprio gruppo , significa tradire, come Chiesa, come comunità più o meno grande che sia, la propria natura missionaria che Cristo ci ha comandato di avere, per continuare la sua missione: « Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi » (Gv 20,21).
Questo compito nobile, entusiasmante, è capace di aprire, nel nome del Signore, nuovi orizzonti, sperimentare nuovi linguaggi, percorrere nuove vie di evangelizzazione, che lo Spirito del Risorto suggerisce e per cui dà forza e coraggio per realizzarle.
Prima Lettura: At, 2, 42-47.
Abbiamo il ritratto del modo in cui viveva la primitiva comunità cristiana: ascolto della parola degli apostoli, carità vicendevole, Eucaristia, preghiere comuni. Tutto questo produceva e irraggiava gioia, ed era motivo di stima da parte di tutto il popolo. Ma un segno viene come privilegiato, là dove si dice che i credenti « avevano ogni cosa in comune ». Fede e amore reciproco stanno strettamente uniti. E’ facile invece separarli, credendo che la fede sia vera e sufficiente anche quando non sia animata e provata dalla carità. In questo caso il cuore si restringe al punto che non vi può più abitare la Parola di Dio; e dove non abita più la Parola di Dio la fede si spegne.
Seconda Lettura: 1 Pt 1,3-9.
La risurrezione di Cristo ha infuso nel nostro cuore la speranza: una speranza « viva » - precisa san Pietro -, capace di farci raggiungere l’eredità dei cieli, cioè la comunione gloriosa con il Signore. L’apostolo osserva che questa eredità è tutta diversa da quella che viene lasciata in questo mondo da padre in figlio: « Non si corrompe, non marcisce ».
Quaggiù l’eredità è sempre precaria ed esposta alla svalutazione e al deperimento. Senza dire che spesso è fonte di implacabili risse. Con la speranza dell’eredità del cielo – la vita eterna con Cristo – non manca la gioia, ma anch’essa è ben diversa da quella superficiale che spesso ricerchiamo. Nella speranza e nella gioia riusciamo a sopportare le prove che ci affliggono. Esse purificano e danno pregio alla fede. Se no, sarebbe troppo facile dichiararci credenti, tirandoci indietro quando il Signore ci chiama ad associarci alla sua passione. Non è scansando la croce, ma morendoci sopra che Gesù ci ha acquistato l’eredità che non perisce.
Vangelo : Gv 20, 19-31.
Fissiamo la nostra attenzione su tre aspetti dell’incontro di Gesù risorto con i discepoli. Anzitutto il dono della pace, che è l’insieme dei beni che il mistero della Pasqua ha procurato agli uomini: la grazia divina, la gioia, la speranza. Poi l’effusione dello Spirito, per cui ci possono essere rimessi i peccati.
La Chiesa è il luogo e il sacramento della misericordia e del perdono, dal momento che in essa vive lo Spirito Santo. I ministri della Chiesa non trasmettono la propria santità ma lo Spirito che sa rinnovare e purificare la vita.
Infine notiamo la professione di fede di Tommaso, il quale riconosce Gesù come Signore e Dio. Ecco chi è Gesù ed ecco a che cosa tende la predicazione e la narrazione stessa del Vangelo: a fare scoprire in lui il vero Dio e il Signore glorioso. Per questo siamo chiamati fedeli e discepoli. Solo che la nostra fede non deve vacillare.
Per questo chiediamo in una colletta di poter rendere a Dio « il libero servizio della nostra obbedienza e del nostro amore, per regnare con Cristo nella gloria ».
E’ la prova che la forza della risurrezione agisce in noi, che il Battesimo, cui abbiamo ripensato, viene realmente vissuto.
Ultimo aggiornamento (Sabato 26 Aprile 2014 22:53)