





Pregare con insistenza e senza stancarsi.
20 Ottobre – 29a Domenica del Tempo Ordinario.
Pregare sempre, senza stancarsi.
Spesso nelle catacombe il graffito dell’orante è raffigurato con le mani alzate verso il cielo. Oggi il Signore nella Parola che ci rivolge ci fa riflettere sulla preghiera e sulla sua necessità di pregare con perseveranza e senza stancarsi. L’Esodo ci presenta Mosè che prega levando al cielo le sue braccia durante la battaglia che gli Israeliti combattono contro gli Amaleciti. Quando, stanco, egli le abbassa il popolo perde in battaglia, quando le tiene alzate gli israeliti prevalgono poiché la forza di Dio li sorregge. Aronne e Cur, allora, gli sorreggono le braccia alzate, così gli israeliti sconfiggono il nemico.
Attraverso questa immagine l’israelita è esortato a pregare con insistenza e continuamente.
Anche Gesù nel Vangelo ci esorta a pregare con insistenza e perseviranza attraverso la parabola della donna vedova che si rivolge al giudice, empio e senza fede, per avere giustizia. Questi, dopo le continue e reiterate insistenze della donna, finalmente le fa giustizia, non per amore della giustizia ma per liberarsi dalle continue seccature di lei.
Gesù allora dice: « Se le continue preghiere furono ascoltate dal giudice malvagio volete che non siano ascoltate da Dio, che è vostro Padre?».
La preghiera in « chiesa » e « fuori chiesa ».
Pregare per Gesù è parlare con Dio, nostro Padre, che è sempre e amorevolmente accanto a noi. Pregare parlando con il Padre celeste è un modo confidenziale di dialogare con lui, come fa un bambino con suo papà o la sua mamma. Gesù, nei giorni prescritti, entra nella sinagoga, luogo di preghiera per gli ebrei, per ascoltare e, a volte, leggere e spiegare le Scritture ai suoi compaesani. Gesù, ancora, passa molti momenti della sua vita, al mattino presto o a tarda sera, in preghiera confidenzale col Padre celeste, parlando con lui con parole spontanee, libere, alimentando così un rapporto costante con Dio. Davanti agli apostoli, che sono ritornati entusiasti dopo la loro esperienza di predi- cazione missionaria, Gesù si rivolge al Padre e dice: « Ti ringrazio, Padre, perché hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli » (Lc 10,21). Anche dopo la risurrezione di Lazzaro, richiamato in vita dalla tomba, prega dicendo: « Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato Lo sapevo che sempre mi dai ascolto » ( Gv 11,41).
Soprattutto nei momenti importanti della sua vita: nel deserto, prima di iniziare la sua missione profetica, prega e riflette sulla Bibbia per trovare la forza contro le tentazioni di Satana; nella notte prima di sc egliere gli apostoli prega sul monte; nella notte precedente la passione, Gesù parla con il Padre a tu per tu, per avere la forza di bere il calice della passione, ecc.
Come la vedova che nei momenti di difficoltà implora il giudice perchè le faccia giustizia, così la preghiera deve farsi forte quando eventi gravimettono alla prova la nostra adesione a Dio. La preghiera è per lo spirito come l’aria che respiriamo per il corpo: si respira in maniera impercettibile solitamente, ma in alcuni momenti particolari di intensa e continuata fatica si respira più intensamente, così deve avvenire nel nostro rapporto con Dio attraverso la preghiera: vivere solitamente una preghi era semplice, assidua, spontanea, e, nei momenti difficili dell’esistenza, vivere un più intenso rapporto di preghiera con Lui. Come Gesù che sulla croce, in un momento di grande sofferenza, elevò al Padre l’accorata preghiera del salmo 21, così è per il credente in lui, se lo si vuole seguire nella fedeltà a Dio.
Pregare con parole note, imparate a memoria, ma con un pizzico di amore e attenzione, anche nei momenti di stanchezza; elevare le mani stanche pur nei momenti di smarrimento in cui non si hanno parole da rivolgere al Signore, è ugualmente dialogare col Padre celeste, vivere in comunione con lui. In questi momenti è nella memoria che noi troviamo le parole che possono esprimere i sentimenti più profondi dell’animo al Signore: la preghiera sale dall’intimo di noi stessi, dove è nascosto il tesoro dell’amore di Dio, a cui non vogliamo certo rinunciare. La trasmissione delle preghiere a memoria ai bambini non è solo un puro atto meccanico dell’opera educativa religiosa, ma una modalità che aiuterà il futuro orante nei momenti difficili e di stanchezza fisica e spirituale.
Poche o tante parole?
Gesù dice che nel pregare non bisogna sprecare tante parole come i pagani che credono di essere esauditi a forza di parole (Mt 6), perché il Padre celeste sa di che cosa i suoi figli hanno di bisogno ancor prima che gliele chiedono. Ma, allora, perché il Signore oggi nel Vangelo ci esorta a « gridare giorno e notte verso Dio ?».
Gesù sembra dirci che se crediamo di essere figli di Dio, dobbiamo comportaci come ci comporteremmo con il nostro padre terreno. Certo poche parole bastano. Ma se non si è ascoltati, allora bisogna insistere, gridare, non stancarsi. Il Signore vuol farci capire che in certi momenti difficili della nostra vita abbiamo più noi bisogno di pregare che Dio di ascoltarci.
Sant’Agostino, a questo proposito, ha una meravigliosa riflessione che certamente ci aiuta a capire queste espressioni di Gesù, che ci sem- brano in contraddizione tra loro. Egli scrive nella Lettera a Proba :
I tempi fissi della preghiera
Manteniamo sempre vivo il desiderio della vita beata, che ci viene dal Signore Dio e non cessiamo mai di pregare. Ma, a questo fine, è necessario che stabiliamo certi tempi fissi per richiamare alla nostra mente il dovere della preghiera, distogliendola da altre occupazioni o affari, che in qualche modo raffreddano il nostro desiderio, ed eccitandoci con le parole dell'orazione a concentrarci in ciò che desideriamo. Facendo così, eviteremo che il desiderio, tendente a intiepidirsi, si raffreddi del tutto o si estingua per mancanza di un frequente stimolo.
La raccomandazione dell'Apostolo: «In ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste» (Fil 4, 6) non si deve intendere nel senso che dobbiamo portarle a conoscenza di Dio. Egli infatti le conosceva già prima che fossero formulate. Esse devono divenire piuttosto maggiormente vive nell'ambito della nostra coscienza. Esse, poi, devono contare su un atteggiamento fatto di fiduciosa attesa dinanzi a Dio, più che ambire la manifestazione reclamistica dinanzi agli uomini.
Stando così le cose, non è certo male o inutile pregare a lungo, quando si è liberi, cioè quando non si è impediti dal dovere di occupazioni buone o necessarie. Però anche in questo caso, come ho detto, si deve sempre pregare con quel desiderio. Infatti il pregare a lungo non è , come qualcuno crede, lo stesso che pregare con molte parole. Altro è un lungo discorso, altro uno stato d'animo prolungato. Consideriamo come del Signore stesso sia scritto che passava le notti in preghiera, e che nell'orto pregò a lungo. Ed in ciò, che altro intendeva, se non darci l'esempio, egli che nel tempo è l'intercessore propizio, mentre nell'eternità è , insieme al Padre, colui che ci esaudisce?
Sappiamo che gli eremiti d'Egitto fanno preghiere frequenti, ma tutte brevissime. Esse sono rapidi messaggi che partono all'indirizzo di Dio. Così l'attenzione dello spirito, tanto necessaria a chi prega, rimane sempre desta e fervida e non si assopisce per la durata eccessiva dell'orazione. E in ciò essi mostrano anche abbastanza chiaramente che non si deve voler insistere in un prolungato sforzo di concentrazione, quando si vede che non può durare oltre un certo tempo, e d'altra parte non si deve interrompere alla leggera o bruscamente la preghiera, quando si vede che la presenza vigile della mente può continuare.
Lungi dunque dalla preghiera ogni verbosità, ma non si tralasci la supplica insistente, se perdura il fervore e l'attenzione. Il servirsi di molte parole nella preghiera equivale a trattare una cosa necessaria con parole superflue.
Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore.
Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime, che con i discorsi. Dio, infatti, «pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime» (Sal 55, 9 volg.), e il nostro gemito non rimane nascosto (cfr. Sal 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini.
Prima Lettura: Es 17,8-13.
Mosè è il grande intercessore presso Dio a vantaggio del suo popolo. Questi perde, se lui non prega più. L’orazione è lo strumento attraverso cui passa la grazia e la forza di Dio. E’ sempre così: la preghiera mette a contatto con la potenza di Dio, allora riesce a ottenere tutto.
Seconda Lettura : 2 Tm 3,14-4,2.
La parola di Dio, come realtà viva – che è poi Gesù Cristo – deve assorbire e unificare l’impegno di chi è dedito al ministero. Questi la deve proclamare con forza, incessantemente. Non deve temere di rimproverare e di ammonire.
Un luogo di questa Parola sono le Scritture, ispirate da Dio, e quindi tali da saper insegnare, correggere ed essere punto di riferimento per la propria condotta. Non basta leggerle, ci si deve fermare su di esse. In particolare su di esse deve fermarsi l’« uomo di Dio », l’apostolo, che ha come funzione quella di guidare la Chiesa.
Vangelo : Lc 18,1-8.
Bisogna essere perseveranti nella preghiera e non lasciarsi deprimere. Se alla fine anche un giudice iniquo si lascia indurre a fare giustizia di fronte ad una richiesta incessante, a maggior ragione si lascerà indurre Dio. Il brano del Vangelo ci esorta a non lasciarci prendere dalla delusione, quasi dal risentimento perché non vediamo subito esaudite le nostre richieste. « Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti ?», a quelli che egli ama. Anzi Gesù non esita a dire che tale giustizia sarà fatta prontamente. L’esperienza sembra smentire questo, ma si tratta di sapere che cosa vuol dire questo per Dio « fare giustizia »: vuol dire attuare per noi il suo disegno di amore, e questo alla nostra domanda perseverante si compie sicuramente e infallibilmente senza ombra di dubbio. Occorre però la fede. Al riguardo ci impensierisce quando Gesù si chiede: « Il Figlio dell’uomo quando verrà, troverà la fede sulla terra? ».
Ultimo aggiornamento (Sabato 19 Ottobre 2013 19:00)
Ringraziare Dio per i suoi doni
13 Ottobre – 28a Domenica Tempo Ordinario.
Rendere gloria a Dio.
Oggi la Parola di Dio ci invita a rendere gloria a Dio, nostro Padre e Salvatore. Naamàn, generale della Siria, colpito dalla lebbra, avendo sentito da una fanciulla ebrea dell’esistenza in Israele del profeta Eliseo, che nel nome di Dio avrebbe potuto guarirlo, viene inviato dal suo re al re di Israele. Il profeta, a cui il re di Israele aveva mandato Naamàn, gli chiede di bagnarsi per sette volte nel fiume Giordano. Dopo qualche resistenza Naamàn asseconda la parola del profeta e la lebbra sparì dal suo corpo. Naamàn capì che la guarigione era opera del Dio d’Israele, e, per dimostrargli la sua riconoscenza, caricò i suoi muli di quella terra su cui regnava Dio. Tornato in Siria, su quella terra che considerava santa, offrì sacrifici al Dio d’Israele.
Il secondo fatto ci viene presentato dal Vangelo di Luca, ed è la guarigione di dieci lebbrosi. Gesù li incontrò in un villaggio dopo aver attraversato la Samaria. La comune malattia aveva fatto sparire il rancore che nella vita normale divideva Ebrei e Samaritani. Essi osservavano la legge dell’isolamento, voluta dalla Bibbia, e “ da lontano” gridarono fino ad attirare l’attenzione di Gesù: « Abbi pietà di noi! ». Gesù li esaudì, ma chiese anche un atto di fede. Chiese loro di recarsi subito dai sacerdoti – come ordinava la Bibbia – per far constatare la loro guarigione ed essere riammessi alla vita civile. Ed essi ebbero fede. Pur con le piaghe ancora aperte si misero in cammino, sicuri che la parola di Gesù li avrebbe guariti. Vengono sanati, ma uno solo « salvato »; il samaritano sente la necessità di tornare da Gesù per ringraziarlo: si getta ai suoi piedi, riconoscendo in lui la presenza di Dio.
Gesù è dolorosamente meravigliato. Lo fa notare con tre domande consecutive: « Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono ? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero? ».
« Grazie »
E’ una parola rara. Essa esige infatti un atto di riconoscenza e di amore verso chi ci ha fatto del bene. Ma la Parola di Dio oggi dice di più della semplice riconoscenza, supera le necessità della buona educazione. Grazie è sì una parola che arricchisce la relazione – così avviene anche nell’esperienza che facciamo di rapporti in cui la stima reciproca alimenta l’amicizia – ma non solo: ringraziare è un atto, una espressione di tutto il corpo, un coinvolgimento personale totale nel riconoscimento della grandezza dell’ Altro. Il lebbroso samaritano torna indietro. Egli supera la distanza iniziale, che lo aveva costretto, poiché nella condizione di lebbroso, a gridare da lontano a Gesù; scegliendo di tornare indietro, egli decide per la vicinanza a Dio. Chi sa di aver motivo di rendere gloria a Dio, accetta volentieri di restare in sua compagnia; gli dà del tempo, come si fa con gli amici, ed è lieto di accoglierlo. E poi la profondità spirituale del ringraziamento si svela nell’inginocchiarsi davanti a Dio: e tutta la sua persona, e non solo la mente a lodare Dio. Dunque il lebbroso esprime il suo grazie proprio con il corpo, che prima era limitato all’incontro e ora invece si fa « parola » per esprimere il suo amore a Dio. Chi prega in ginocchio riconosce la grandezza di Dio e al contempo offre tutta la sua debolezza. In ginocchio ci si fa piccoli davanti al Santo, si vive l’umiltà del servo, si ricorda la totale dipendenza del figlio dal Padre.
C’e ancora un aspetto del ringraziamento su cui riflettere. Grazie non è solo una parola, ma un’opera. Per gli Ebrei addirittura non esiste una parola per esprimere formalmente il grazie; ringraziare significa dire a tutti quanto grande e buono è il Signore. Ringraziare è parlare bene di lui, cantarne le meraviglie, lodarne le opere.
Rendere grazie nei Sacramenti.
Questo atteggiamento spirituale si vive nella fedeltà ai Sacramenti, in cui oggi si realizza il dono della grazia in favore degli uomini. Dopo la parola di Dio celebriamo l’Eucaristia, termine greco che significa « riconoscenza, gratitudine, ringraziamento ». Rivivremo l’ultima cena del Signore, e ricordano le meraviglie della misericordia di Dio verso di noi, gli offriremo come eucaristia, come ringraziamento, il corpo e sangue di Gesù. E’ il figlio suo, fatto nostro fratello per amore, e per amore morto per noi, per la nostra salvezza. La nostra Messa è il nostro grande « Grazie » a Dio.
Prima Lettura: 2 Re, 5,14-17.
Naamàn è guarito, grazie alla fede e all’umiltà con cui ascolta l’invito del profeta a bagnarsi nel fiume Giordano. Non ci sono miracoli a condizioni diverse. Per parte sua il profeta è un uomo distaccato: non accetta doni per sé; sa che è solo strumento di grazia. Conta solo Dio, che importa riconoscere e servire come l’unico Signore.
Seconda Lettura: 2Tm 2,8-13.
Al ministero dell’evangelizzazione non manca mai la sofferenza. Per il Vangelo Paolo soffre le catene. Tuttavia non si lascia deprimere. La parola di Dio rimane dell’sua efficacia e libertà: anzi la sofferenza di Paolo è vantaggiosa per i cristiani, per la salvezza degli eletti. Del resto per tutti la comunione alla gloria di Cristo passa per questa condizione: la perseveranza fedele che porta a morire con Gesù.
Vangelo : Lc 17, 11-19.
La fede salva il lebbroso riconoscente. Anche gli altri sono guariti, ma sono occupati a usufruire, senza rendere grazie, della guarigione ricevuta. Per l’unico che torna indietro lodando Dio a gran voce la guarigione è veramente perfetta, è riconoscimento di Cristo, e salvezza piena. Questo lebbroso ci insegna ad essere riconoscenti per il dono di Dio e anche a vedere che il più grande dono di Dio è la redenzione dell’anima.
La fede e il servizio.
6 Ottobre – 27a Domenica del Tempo Ordinario.
La fede e il servizio.
Il Signore oggi nella sua Parola ci chiede di avere una fede grande e incondizionata in Lui e un atteggiamento di servi umili e disinteressati nel suo nome in mezzo alla comunità.
« Il giusto vivrà per la sua fede ».
Abacuc, che vive durante la tirannia di Ioachim, re di Giuda, nel 600 a. C., rivolge a Dio i suoi lamenti: vede intorno a lui ingiustizie e violenza. Chiede a Dio: « Perché tu, o Dio, non intervieni? Perché permetti il trionfo dei violenti? ». Il Signore gli risponde facendogli capire che attraverso quegli avvenimenti egli intende mettere alla prova e purificare i giusti. Il profeta invita coloro a cui si rivolge ad alzare gli occhi da questa realtà passeggera verso le realtà invisibili, che rimangano per sempre, e a guardare verso Dio. Così il profeta, ispirato, esprime il pensiero di Dio con un oracolo :« Il giusto vivrà per la sua fede ». La fede è la fiducia totale che il giusto ripone in Dio, il quale lo sostiene in tutte le sue vicende, specie quelle tristi e difficili dell’esistenza. E’ Dio che guida gli avvenimenti della storia e sa trarre il bene anche dal male e tutto riconduce al bene dell’uomo.
Le disgrazie, allora, non scoraggiano colui che ripone la sua fede in Dio, che ripone in lui la sua fiducia. Dio lo sostiene con la sua forza. Le prove e i travagli della vita, accettati con pazienza, come quella di Giobbe, rendono iol giusto saldo nella sua totale fiducia in Dio.
Il giusto si rimette nelle mani di Dio qualunque cosa gli capiti e, con la pazienza e la resistenza di fronte al male, egli purifica la sua fede e si rende gradito a Dio.
Accresci in noi la fede.
Gesù, parlando del pericolo che i discepoli possono correre di fronte alle ricchezze e della necessità di staccare il cuore dai beni di questo mondo, li esorta ad avere fede riponendo la loro totale fiducia in Dio.
Così essi, davanti ad una fede ancora debole, fragile, incerta, accoratamente si rivolgono al Signore e gli chiedono: « Accresci la nostra fede ». Essi, poiché vogliono seguirlo, sono pur spaventati dalle difficoltà che incontreranno. Vogliono avere fiducia totale in lui e affidarsi alla sua parola senza titubanze, pur riconoscendo le proprie debolezze.. Gesù, riconoscendo la loro fede in lui ancora semplice, iniziale, li rassicura e con una espressione semplice dice loro: « Se aveste fede quando un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe ». La fede dunque è al centro della riflessione che oggi il Signore vuol farci vivere.
Dice il Concilio nel Dei Verbum: « Con la fede l’uomo si affida totalmente e liberamente a Dio, e gli dona la sottomissione completa della sua intelligenza e della sua volontà » . Aver fede in Dio significa allora accettare come vero tutto quello che Dio ci rivela, di sé e delle realtà divine, per mezzo di Gesù, suo Figlio; fidarci di lui fino in fondo e senza riserve e, di conseguenza, comportarci secondo la sua volontà.
La parola fede, nella lingua semitica di Gesù, significa certezza, fermezza, sicurezza e fiducia. Tutto ciò richiama alla mente la figura del bambino che si affida totalmente e saldamente nelle braccia della madre e del padre. Aver fede per Gesù significa, allora, lasciarsi portare in braccio da Dio.
Con la forza dello Spirito, che vivifica e sostiene il credente, la fede si accresce, si fortifica, si rinsalda. Dobbiamo porre quindi un confronto serio tra la fede che Gesù ci chiede e la nostra vita, per verificare se davvero abbiamo accolto e sviluppato questo dono di Dio, datoci nel battesimo insieme alla speranza e alla carità, e così giudicare se agiamo secondo il pensiero di Cristo. Insieme, nella comunità tutta, dobbiamo confrontare e raccontare la nostra fede, non solo con le sue difficoltà, ma anche con le sue esperienze positive.
La fede vissuta come servizio.
Nella parabola di oggi Gesù ci parla del servo disinteressato e umile, che Egli propone come modello, non solo agli apostoli e a coloro che hanno responsabilità nella comunità, ma a tutti. La parabola è uno spaccato di vita riguardante il rapporto tra il padrone e i suoi servi, i quali venivano sfruttati senza scrupoli non esistendo né contratti di lavoro, né limiti di orario, ma peggio, dopo aver faticato nei vari lavori, dovevano, tornando a casa, servire i loro padroni. Solo dopo potevano pensare a sé stessi e ai loro bisogni. Gesù, più che giudicare tali rapporti disumani, partendo da tali vicende, vuole dare degli insegnamenti che devono formare una nuova mentalità nei discepoli: indicare quale deve essere l’atteggiamento del discepolo nella comunità cristiana. Il suo deve essere un servizio disinteressato e umile. Egli invita i suoi a realizzare una mentalità diversa, dove i rappresentanti del « divino » non vendono le loro prestazioni nè cercano privilegi e posti d’onore e di autorità.
Nelle comunità cristiane, a cominciare dagli apostoli, tutti devono sentirsi e essere umili, poveri e semplici servi. Tutto quello che si fa deve essere fatto per amore, come servizio, senza pretese di ricompensa o di prestigio. Gesù, che nell’ultima Cena ha lavato i piedi ai discepoli, lui il Maestro e Signore, rimane sempre il modello di colui che è chiamato a servire la comunità cristiana, indossando il grembiule e servendo come ha fatto lui.
Prima lettura: Ab 1,2-3;2,2-4.
Tanto e tale è il male, l’ingiustizia, il disordine che c’è nel mondo del suo tempo, che il profeta Abacuc non può fare a meno di sollevare il suo lamento. Sono parole forti, che forse sono passate anche sulle nostre labbra: « Perché mi fasi vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? ». La risposta di Dio è quella di avere fede in lui, nel compimento del suo disegno, nonostante la tirannia di Ioachim. Chi ne dubiti perisce, chi invece ha fiducia si salverà: « Il giusto vivrà per la sua fede ». Sarà il grande tema della predicazione e dell’insegnamento di Paolo. Ed è il richiamo continuamente necessario.
Secondo Lettura: 2 Tm 1,6-8.13-14.
Timoteo non deve temere nell’esercizio del suo ministero, non deve lasciarsi prendere dalla timidezza, ma essere coerente con « lo spirito di forza, di carità e di prudenza » che ha ricevuto e che deve perseverare. Quando Paolo gli ha imposto le mani, Timoteo ha ricevuto un « dono »che non si è consumato o logorato, e che si tratta di riaccendere e ravvivare. Come Paolo il suo collaboratore deve prendersi la propria parte di sofferenze per il Vangelo, aiutato dalla « forza di Dio ». Non c’è impegno apostolico senza sofferenze, non c’è custodia del Vangelo senza passione. Ma sostiene l’aiuto dello Spirito Santo che opera e rende testimoni coraggiosi e fiduciosi.
Vangelo . Lc 17,5-10.
Gli apostoli sentono il bisogno di avere una fede più grande. Vicino a Gesù capiscono che senza di essa non possono esserne discepoli. E d’altronde tale è la preziosità, il valore della fede, che ne basterebbe poca. Con la fede ci si mette direttamente in contatto con la potenza di Dio: l’uomo riesce come a disporne. C’è un altro richiamo nel brano del Vangelo: quello di considerarsi dei servitori, di non vantarsi, di non accampare pretese su nessuno, di non fondarsi sui propri meriti. La salvezza è pura e tutta grazia.
La vita oltre la morte per il ricco e il povero.
29 Settembre – 26a Domenica Tempo Ordinario.
La vita oltre la morte per il ricco e il povero.
La ricchezza è per l’uomo una realtà che può esporlo al pericolo di rinchiuderlo nell’ egoismo. Così, ancora una volta, la Parola di Dio di questa Domenica ci invita a convertirci e a cambiare il nostro atteggiamento verso la ricchezza e al suo uso.
I protagonisti della parabola di oggi sono il ricco, che mangia e beve lautamente, e il povero Lazzaro, che muore di fame davanti alla porta del ricco e non riceve neppure le briciole che cadono dalla sua tavola. .
Gesù, rifacendosi alle parole di Amos, vissuto 750 anni e che descrive il comportamento dei ricchi, vestiti di abiti costosissimi e banchettanti con cibi abbondanti, odoranti di profumi raffinati, parla del ricco epulone che, banchettando con gli amici nella sua casa, non è scalfito nel suo egoismo da nessun rimorso o problema. Non si accorge nemmeno del povero Lazzaro, affamato e coperto di piaghe, che attende davanti alla sua porta qualche briciola del suo cibo e che solo ai cani sembra far compassione.
E oltre questa vita terrena cosa attende entrambi?
Nella seconda parte della parabola, Gesù descrive, dopo la morte di entrambi, la nuova situazione di vita in cui vengono a trovarsi. Infatti,con la morte dei due protagonisti non finisce la storia, così come non finisce la nostra vita dopo la nostra morte. Anche gli uomini di oggi forse sono abituati a pensare: « Ridi, soffri, mangi, ti diverti, poi arriva la morte, ed è tutto finito ». Gesù ci dice, invece, con forza che questa concezione della vita non è secondo lo schema di Dio. La storia della nostra vita, per il ricco mangione e beone, per il povero Lazzaro, per i ricchi e i prepotenti, i poveri e i diseredati la storia continua. Lazzaro, che ha in vita sofferto fame, sete e ogni rifiuto di aiuto, viene portato dagli angeli nel la pace e nel seno di Abramo, mentre il ricco finisce all’inferno tra indicibili tormenti e a soffrire l’arsura della sete.
Davanti a questa realtà, noi, che spesso esorcizziamo la morte piuttosto che contemplare il mistero della vita oltre terrena, accettiamo questa prospettiva dell’esistenza che Gesù ci presenta e che, volenti o nolenti, la sua parola divina ce ne dà certezza? Se accogliamo il versante della esistenza oltre quella terrena, allora, dobbiamo pensare in quale realtà vogliamo approdare dopo la morte. Questo versante è decisivo per il nostro destino, perché è il definitivo e non ci è data un’altra possibilità per modificarne la condizione. Se la vita terrena è certo importante, ma sappiamo che è transitoria e si consuma giorno dopo giorno, allora, domandiamoci seriamente a quale condizione vorremmo pervenire: in quella di Lazzaro, nella comunione e nella gioia di Dio, o in quella del ricco, tra i tormenti dell’inferno e della lontananza da Dio?
A sorti rovesciate.
Nella logica di Dio le sorti sono rovesciate. Gesù, contro la convinzione corrente al suo tempo che riteneva la ricchezza una benedizione della benevolenza di Dio, ammonisce che essa può essere fonte di divisione e di discriminazione, di peccato e di egoismo. D’altra parte, tutta la Bibbia ci presenta la logica di Dio diversa da quella dell’uomo, una pedagogia che ribalta la storia: Maria nel Magnificat canta la bontà d Dio che “ innalza gli umili e abbassa i potenti, ricolma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi”, rovesciandone le sorti. Anche le Beatitudini non sono nel medesimo registro della parabola di oggi poiché in esse il piano di Dio stravolge ciò che nella logica dell’uomo appare come la cosa più giusta? Tutta la parola di Dio, con tutta la sua forza, si presenta come Parola che stravolge il modo di pensare e agire dell’uomo e lo invita alla conversione per trasformare la sua mentalità.
Per il credente in Cristo nel Vangelo di Gesù non vi è un manifesto di rivoluzione politica quanto il progetto di una società fondata sull’amore, nella solidarietà e nella convinzione che i diritti umani, radicati nella coscienza, rendono gli uomini uguali davanti a Dio, come sue creature, come figli e fratelli in Cristo. E’ nell’amore che Dio cambia la storia e salva l’uomo. La salvezza di Cristo avviene nella conversione del cuore degli uomini, diversamente egli stesso avrebbe intrapreso una rivoluzione contro i potenti della terra.
Dopo la morte, ci dice Gesù, la condizione personale di ognuno può cambiare totalmente: il ricco, dal suo benestare egoistico e nel lusso, può ritrovarsi nel tormento e il povero, dall’estrema povertà accettata con rassegnazione e fede, ritrovarsi nella felicità. Quindi la situazione personale di ognuno può cambiare radicalmente nella vita in cui saremo chiamati ad entrare dopo la nostra morte. Né possiamo banalizzare sulla rappresentazione che Gesù, servendosi delle immagini della letteratura del tempo, fa del paradiso o dell’inferno. Egli, più che darci indicazioni geografiche su realtà future, vuol dirci che la condizione di vita in cui ci ritroveremo dopo la morte è questione seria, da non sottovalutare, e che l’una o l’altra delle condizioni sono verità fondamentale della fede cristiana: dopo questa esistenza terrena Dio ci chiederà conto di come abbiamo vissuto e come abbiamo usato i suoi doni spirituali e materiali.
Gesù, inoltre, non demonizza la ricchezza, ma ci chiede di non lasciarsi abbindolare dal suo luccichio, dal benessere che da essa può venirci. Ci invita ad usare ciò che possediamo per il bene di tanti fratelli che come Lazzaro vivono accanto a noi e bussano al nostro cuore per un gesto di solidarietà e di giustizia.
Gesù non condanna la ricchezza e i beni che possediamo quanto l’egoismo che porta alla condanna. La proposta di Gesù, pur nella sua durezza, è un invito alla conversione del cuore. Egli ci ammonisce dicendoci che per convertirsi non è necessario vedere miracoli, come chiedeva il ricco ad Abramo mandando Lazzaro risorto ai suoi fratelli, che come lui vivevano dissolutamente. Occorre solo togliere da sé l’egoismo per far ridestare la fede ascoltando la sua parola e realizzando gesti d’amore.
Prima Lettura: Am 6,1.4-7.
Amos è il profeta che denunzia con estremo vigore le ingiustizie sociali, il lusso che offende la povertà, la spensieratezza e l’orgia dei «dissoluti». Ma questi non devono illudersi: « andranno in esilio in testa ai deportati ». I beni passano, mentre rimane la condanna divina.
Seconda Lettura: 1 Tm 6,11-16.
Timòteo, « uomo di Dio », guida della comunità, deve essere esemplare nella sua condotta: mite, caritatevole, anche battagliero per la fede, a cui deve dare « una bella testimonianza »; e deve conservare il Vangelo intatto, in attesa della venuta del Signore.
Vangelo: Lc 16,19-31.
L’uomo ricco, dal cuore egoista e soddisfatto dei suoi beni, si illude che la propria condizione possa continuare. In realtà alla sua morte tutto è capovolto: viene posto « negli inferi fra i tormenti ». Anche la situazione di Lazzaro, il mendicante, è rovesciata e trova consolazione: una legge del contrappasso, con la determinazione di due situazioni irreversibili. Per non essere nella condizione del ricco occorre ascoltare la Parola di Dio, usare le ricchezze con distacco e attenzione agli altri; avere il cuore libero, aperto ai veri segni di Dio e non tanto a prodigi strepitosi o spettacolari. La ricchezza porta sempre attaccamenti e chiusure nel cuore. Chi segue il Vangelo non può farne il motivo della vita, ma se ne disfa e, per quanto necessaria, la usa con distacco.
Ultimo aggiornamento (Sabato 28 Settembre 2013 16:19)
Rispetto e attenzione ai poveri.
22 Settembre – 25a Domenica Tempo Ordinario.
Rispetto e attenzione ai poveri,
La fedeltà del discepolo a Cristo Signore deve caratterizzare profondamente il suo comportamento. Il profeta Amos, un contadino vissuto 750 anni prima di Gesù, è inviato da Dio in un tempo in cui in Israele vigeva un comportamento ispirato alla frode e allo sfruttamento, così come avviene anche oggi in tanti luoghi del pianeta e nelle nazioni in cui vigono leggi all’avan-guardia per il rispetto dei diritti dei poveri e dei meno abbienti. Dio pone sulla bocca di Amos una frase sconcertante : « Io vendicherò i miei poveri ».
Paolo, da parte sua, invita a pregare e a far pregare per la pace, anche per i governanti, cosicché si possa condurre una vita calma e tranquilla.
Luca, nel brano del Vangelo di oggi, ci presenta la parabola di Gesù, forse ispirata ad un fatto di cronaca di quei giorni, dell’amministratore infedele che, scoperto per i suoi imbrogli nell’amministrare i beni del suo padrone, prima di essere licenziato, chiama i debitori del suo padrone e falsa le ricevute di quanto essi gli devono: ad uno toglie 18 ettolitri di olio, ad un altro 35 quintali di grano, ecc. Così pensa di farsi degli amici che lo avrebbero accolto una volta licenziato dall’amministrazione.
Gesù invita ad essere scaltri.
Gesù, più che far porre l’attenzione degli ascoltatori sulla immoralità del comportamento tenuto da quell’uomo, dà una lezioni di vita ai suoi discepoli e anche a noi. Pur dicendo che l’amministratore è disonesto, egli ne loda la furbizia e la scaltrezza, perché ciò che ha rubato al padrone lo ha sgravato ai debitori che gli dovranno essere riconoscenti nel futuro, quando non avrà più il suo lavoro, e così potrà avere qualcuno che lo accoglie..
Gesù, poichè vuole esortare ogni uomo ad una santa furbizia e a non lasciarsi rendere schiavi del denaro, ci invita a investire le proprie ricchezze a beneficio dei poveri. E, anche qualora si accumu-lassero beni in maniera non onesta, elargire ai poveri, come fece Zaccheo, è un modo per avere in cielo coloro che accoglierebbero nelle dimore eterne. Certamente anche il povero Lazzaro, presso il seno di Abramo, avrebbe posto la sua intercessione se il ricco epulone lo avesse sfamato durante il loro soggiorno terreno.
I poveri infatti sono i prediletti di Dio e se si dà ad essi, certamente, Dio aprirà le porte del cielo a coloro che li avranno beneficati, accogliendoli nella sua casa..
Ma Gesù, oltre all’elemosina, vuole esortarci a non limitarsi solo a questa forma di aiuto perchè, terminato il denaro dell’elemosina, il povero si ritroverebbe di nuovo nel bisogno e avrebbe di nuovo fame.
La maniera vera e stabile di aiutare i fratelli in necessità sarebbe dare un lavoro stabile ad un padre di famiglia, i mezzi necessari ad ognuno per uno sviluppo umano e sociale adeguato, le cure necessarie ai malati, una casa decente per tutti. Gesù, in definitiva, invitandoci ad avere rispetto e attenzione ai poveri, ci insegna, non tanto e solamente a fare l’elemosina, ma a trasformare la società e a renderla più umana e più giusta, a fare della nostra terra un luogo dove tutti, anche i più poveri, possano avere il necessario alla loro vita e alla loro dignità.
Il cristianesimo, allora, non può non esprimere anche la profezia della giustizia sociale, della difesa dei più deboli in senso largo e della denunzia delle oppressioni esercitate in maniera più o meno scaltra.
Né la dottrina sociale della Chiesa nell’applicare i principi evangelici può prescindere dall’affermare chiaramente e con determinazione che il diritto, pur legittimo, alla proprietà privata deve essere coniugato e, a volte, anche subordinato alle esigenze di giustizia sociale. Non si può prescindere, infatti dal principio della « destinazione comune ed universale dei beni della terra » data da Dio all’uomo.
La fede cristiana riconosce che il bene della creazione non può essere accaparramento di pochi a discapito di tutti gli altri.. Si spiega così il potente richiamo profetico che i papi, da Leone XIII e via via a Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e in ultimo Papa Francesco, hanno voluto imprimere al messaggio evangelico a favore dei poveri della terra, degli ultimi, dei popoli oppressi e resi schiavi dalle ricchezze dei popoli ricchi per le dure leggi economiche del mercato. Il cristiano non può restare indifferente e non essere fortemente critico dinanzi al grave divario che vi è tra i popoli, o gruppi sociali, a proposito delle disparità economiche e del poco rispetto dei diritti fondamentali di ogni uomo.
La fedeltà a Dio
La parola di Dio, oggi, oltre al suo valore in chiave sociale, ci richiama alla fedeltà a Dio, poiché questa istanza non può essere soppiantata dagli aspetti materiali dal messaggio evangelico richiamati. Davanti all’dolo della ricchezza, che spesso diventa fine a se stessa e non mezzo, che rende schiavi delle cose e fa perdere la libertà, Gesù vuol farci prendere coscienza che è necessario fare una scelta: non si può servire nello stesso tempo Dio e mammona, bisogna decidersi a sce- . gliere. Nel farsi “ servi di Cristo ”, cioè imitarlo e accettare che egli regni nei nostri atteggiamenti e comportamenti, le cose che ci servono acquistano un valore di mezzo e non di fine, un “bene di cui poter disporre per far del bene ai fratelli”. Non possiamo certo fare a meno del denaro e di tutte le realtà ad esso connesse (banche, bilanci, ecc.), ma Dio domanda all’ uomo non di fare a meno di tutte queste realtà, ma ci chiede di utilizzarle a servizio di tutti gli uomini.
Aprire il cuore ai fratelli, per un senso di giustizia umana ed evangelica, significa usare i beni della creazione per esprimere la solidarietà verso i più deboli, poveri, emarginati di ogni società e così creare comunione tra le persone, anziché creare discriminazioni, che spesso, lungo la storia, sono state fonti di lotte anche violente. Essere fedeli nel poco per esserlo anche nel molto, che per varie situazioni possiamo ritrovarci e utilizzarlo con sapienza evangelica amministrandolo a nostro e altrui beneficio, significa voler rendere a Dio quello che è di Dio e a Cesare ( inteso come umanità in cui chi la guida, nell’esprimere l’autorità, deve provvedere al bene comune), quello che è di Cesare. Potremo così tutti usare dei beni terreni e, facendoci saggi amministratori delle cose di questo mondo, condivideremo anche i beni spirituali su questa terra e, soprattutto acquisteremo le vere ricchezze celesti che né la ruggine né la tignola consumano. Il sottile legame fra le cose celesti e quella della terra è ciò che la Parola di Dio ha voluto farci comprendere, perchè amministrando saggiamente i beni creati rendiamo gloria a Dio.
Prima Lettura : Am 8,4-7.
Calpestare il povero, imbrogliarlo, approfittare del suo bisogno, è peccato gravissimo. Dio stesso protegge il povero, lo ha a cuore e ne prende le difese. Non si può dividere l’amore a Dio e l’amore al prossimo: chi offende ed è ingiusto con il prossimo tocca e offende Dio stesso.
Seconda Lettura: 1 Tm 2,1-8.
Il Padre è uno per tutti, così il Mediatore, Cristo Gesù, il quale ha offerto la propria vita come prezzo per la liberazione di tutti gli uomini: tutti devono quindi essere presenti alla preghiera della comunità cristiana, e in particolare coloro dai quali dipende una vita comunitaria di serenità e di pace. Non possiamo allora ammettere scontri, contese, cioè tutto quanto produce divisione a antitesi a quell’amore che tutto ha redento. Paolo vuole che si alzino al cielo per la preghiera « mani pure e senza collera », altrimenti la preghiera non vale. Si direbbe che non sale preghiera al Padre, se non è fatta da fratelli.
Vangelo : Lc 16,1-13.
L’amministratore infedele ha cercato di procurarsi degli amici per il tempo della sventura con un procedimento disonesto ma, secondo la sua linea, furbo, scaltro. Anche i discepoli di Gesù devono essere scaltri, non con la disonestà di quell’amministratore, ma cercando di farsi degli amici distribuendo le ricchezze: tali amici sono quanti intercederanno presso Dio nel giudizio, come testimoni della nostra carità.
Chi amministrerà con questo spirito evangelico i beni di questo mondo riceverà i beni veri, che ci sono destinati. Gesù parla di « disonesta » ricchezza; di « ricchezza altrui »: è per dire fino a che punto dobbiamo essere distaccati e fino a che punto dobbiamo sorvegliare il nostro cuore per non esserne captati, per non farne degli idoli.